Il circo dei colloqui tra farsa e tragedia

Quanta foga può mettere la destra israeliana nella celebrazione della fine della moratoria (ufficiale) della costruzione di insediamenti nei territori occupati nel 1967? Bisogna festeggiare con moderazione, dal momento che «dall’ufficio del primo ministro Netanyahu hanno chiesto di non esagerare con le manifestazioni d’allegria».
Bisogna celebrare con moderazione perché la destra israeliana non abbandoni la coalizione del premier, con moderazione per cercare di evitare che i negoziati di «pace» si interrompano e per non irritare troppo il presidente Obama, il cui portavoce continua a ripetere che l’amministrazione statunitense ritiene che la moratoria vada ribadita.
Venerdì mattina un guardiano ha assassinato un palestinese – per «legittima difesa» secondo il locale capo della polizia. L’ufficiale ha parlato in modo patriottico prima che fosse avviata alcuna indagine né che si fosse fatta luce sulla morte di un bambino palestinese di 15 mesi che sarebbe stato soffocato dai gas lacrimogeni lanciati dalla polizia di Gerusalemme contro i manifestanti di Isawia, una parte di Gerusalemme.
Però forse proprio negli eventi capitati lì, a Gerusalemme, si è capito che le chiavi dei negoziati non passano soltanto attraverso le grandi dichiarazioni. A Gerusalemme e nei Territori occupati ogni casa costruita non è altro che un nuovo ostacolo alla pace, un nuovo passo nella concretizzazione di un progetto coloniale articolato.
Il progetto coloniale è assolutamente opposto alla pace e di fatto non è nemmeno possibile concepire una reale pace senza il previo abbandono del progetto coloniale a favore della costruzione di un futuro diverso per israeliani e palestinesi.
Gli artisti della retorica stanno lavorando come pazzi cercando di scovare formule che permettano di portare avanti i negoziati. Nessuno crede ai negoziati in questo contesto di oggi. Ma i negoziati sono necessari per due questioni di capitale importanza: da un lato il presidente Obama ha bisogno di arrivare con un profilo migliore alle elezioni di mid term di novembre; dall’altro persino la leadership dell’esercito israeliano è consapevole che un fallimento dei colloqui possa portare a una nuova esplosione della regione.
Un’eventualità che non vogliono né gli israeliani né i palestinesi. Per questo Abu Mazen informa che ogni decisione da prendere rispetto alle eventuali proposte israeliane sarà trattata all’interno di consultazioni interne palestinesi e poi intra-arabe la prossima settimana prima di ogni incontro formale. Una forma elegante per dire che ha fallito e per non lasciare di conseguenza il potere.
I tentativi americani di riannodare il dialogo con la Siria sono forse il passo più positivo delle ultime ore. Ma è necessario ripeterlo: per arrivare a un accordo di pace devono esserci diversi cambiamenti reali nella regione, che necessariamente implicheranno un nuovo equilibrio di forze nell’arena araba regionale, oltre che un cambiamento sostanziale nelle divisioni e un raggruppamento che porti alla fine a una possibile riunificazione palestinese.
La continua guerra civile tra Hamas e le altre forze palestinesi può invece avere come unico risultato il consolidamento del conflitto e la diffusione di nuovi spargimenti di sangue. L’ultima guerra di Gaza è stata nei primi giorni la grande speranza di alcuni leader corrotti palestinesi che credevano di poter tornare nella Striscia a bordo dei tank israeliani.
Senza un cambiamento reale di questa situazione, senza un cambiamento essenziale nella politica imperiale americana, con un’Europa che si sposta violentemente a destra, verso il razzismo, sarà difficile realizzare alcuni dei passi necessari per imporre al governo israeliano quei cambiamenti a cui si oppone la coalizione fondamentalista-nazionalista che regge i destini del paese in questi giorni.

Zvi Schuldiner

(Il Manifesto)