A proposito del riconoscimento preventivo dello Stato palestinese

A proposito del riconoscimento preventivo dello Stato palestinese
di Wasim Dahmash

Queste brevi annotazioni riguardanti l’iniziativa della ANP (Autorità Nazionale Palestinese, alias OLP o Fatah) atta a chiedere all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il riconoscimento di uno Stato palestinese da istituire su una parte del territorio palestinese, costituivano un messaggio di posta elettronica il cui destinatario mi ha chiesto di rendere pubblico.
Rileggendo il messaggio ho ritenuto di lasciarlo nella sua forma originaria (punto 1), alla quale però aggiungo altre quattro veloci riflessioni (punti 2-5).
1. Mi limito a osservare che almeno dalla morte di Arafat in poi, le azioni dell’ANP (OLP-Fatah) non sono più solo indotte da Israele, ma piuttosto coordinate con gli organi dello Stato israeliano, vedi ad esempio l’organizzazione e il ruolo della polizia palestinese, e in politica internazionale basti ricordare il caso del rapporto Goldstone. Non vedo perché un’azione politica piuttosto rilevante come quella annunciata non debba essere come altre preventivamente concordata.
I funzionari che guidano l’ANP (OLP-Fatah) non sono affatto persone stupide e sanno benissimo che non potranno disporre, come vorrebbero, di uno Stato palestinese autonomo in accordo con Israele. Allora a che cosa mirano? Si accontentano di uno Stato “temporaneo”, come è nei programmi israeliani, o più modestamente di continuare a gestire l’ANP, così com’è, o più realisticamente di “tirare a campare” per qualche anno ancora.
Tutto l’establishment israeliano ha più volte ripetuto che uno Stato palestinese entro la cosiddetta “linea verde” vale a dire le linee di armistizio del 1949 (leggi Cisgiordania e Gaza) non è possibile, ma uno Stato palestinese sarebbe accettabile, anzi auspicabile, entro confini da stabilire, perché nei territori occupati nel 1967 delimitati dalla “linea verde” vivono oggi oltre 500.000 ebrei israeliani che non accetterebbero di essere cacciati via o di diventare cittadini palestinesi.
La soluzione? Consisterebbe in uno scambio di territori. I territori cisgiordani abitati da israeliani andrebbero annessi ad Israele e i territori abitati da “arabi israeliani” sarebbero attribuibili al costruendo Stato palestinese. Ovviamente questo dovrà essere un processo da concordare tra le parti attraverso un negoziato che sarà, difficile, complesso e soprattutto molto lungo. Tappa obbligatoria di questo negoziato è definire chi sono i soggetti della cittadinanza palestinese e della cittadinanza israeliana. Il passaggio dei coloni israeliani in Cisgiordania alla cittadinanza palestinese sarebbe escluso perché non lo vogliono e perché quei territori sono destinanti, nell’ambito dello scambio, a Israele.
Il passaggio degli “arabi israeliani” alla “cittadinanza palestinese” sarebbe necessario perché loro sono palestinesi, così si realizzerebbe l’unità del popolo palestinese, e perché quei territori sarebbero destinati al virtuale “futuro Stato palestinese”. In caso di mancato raggiungimento di un accordo globale di pace e sul futuro assetto dello Stato palestinese, come è nei programmi israeliani, i palestinesi oggi cittadini israeliani che nel frattempo avranno perso la cittadinanza israeliana avranno bisogno di un permesso di soggiorno per continuare a soggiornare in “Israele”.
In altre parole Israele acquisisce una carta legale per espellere i palestinesi sopravvissuti alla pulizia etnica del 1947-49. La nascita virtuale e il riconoscimento di uno Stato palestinese, sotto il profilo legale, è necessario ad Israele perché abbassa il tetto delle rivendicazioni palestinesi.
A tutt’oggi, secondo il diritto internazionale, i profughi palestinesi hanno diritto a ritornare alle loro terre (risoluzione 194). Il riconoscimento di un “futuro” Stato palestinese limiterebbe questo diritto ai confini (virtuali) del costruendo Stato (virtuale).
La proclamazione di uno Stato palestinese su una parte del territorio della Palestina mandataria renderebbe automaticamente legale l’esistenza sul rimanente territorio dello Stato coloniale tuttora illegale secondo la carta delle Nazioni Unite, anche se riconosciuto da molti Stati membri dell’ONU ed è ammesso alla stessa organizzazione alla condizione di applicare la 194 (Il ritorno dei profughi). Israele è l’unico Stato ammesso all’ONU in modo condizionato. Infatti la 181, presa a pretesto per “legalizzare” lo Stato d’Israele, non è una “risoluzione”, ma è una “raccomandazione” di un “comitato ad hoc” indirizzata all’Assemblea Generale ed è in aperto contrasto con la carta delle Nazioni Unite.
Si tratta semplicemente di un escamotage legale. La “legalizzazione” dell’assetto politico del territorio palestinese legalizzerebbe l’assetto geopolitico vicino orientale scaturito dagli accordi Sykes-Picot. Ad esempio, lo Stato che potrebbe vantare maggiore legittimità nella regione siriana sarebbe quello sorto per esclusiva volontà dei suoi abitanti in un momento di lotta popolare ed è quello che oggi non c’è, cioè il Regno di Siria proclamato dal Congresso popolare pansiriano di Damasco nel 1918 in cui deputati eletti in rappresentanza di tutte le regioni siriane (oggi Siria, Libano, Palestina/Israele, Transgiordania, parte della Turchia) e di tutte le comunità confessionali, linguistiche, rurali e urbane, avevano proclamato l’indipendenza della Siria dall’Impero Ottomano. L’assetto odierno garantisce un’instabilità permanente, una frammentazione progressiva, una dipendenza economica crescente e una sudditanza politica delle comunità della regione (non più una nazione, non più un popolo, non più popoli) nei confronti dell’Impero e delle sue manifestazioni corporative e statuali.
La frammentazione politica agisce da acceleratore della frammentazione sociale e si nutre di essa, vedi lo scontro giordano-palestinese del 1970 e quello latente che ogni tanto riesplode, oppure gli infiniti conflitti libanesi, e così via. Il laboratorio siriano è stato poi esteso all’Iraq, ecc. La trattativa per uno Stato palestinese dovrebbe inoltre includere un ventaglio di forze palestinesi, perché si è visto che trattare con una sola parte non ha portato alla pace desiderata. In altre parole bisognerà coinvolgere, oltre a Fatah anche Hamas, la quale organizzazione, per essere ammessa, dovrà però preventivamente soddisfare alcune condizioni che OLP-Fatah aveva a suo tempo fatto sue prima di essere ammessa al tavolo dei negoziati. Tra queste condizioni primeggiano il riconoscimento dello Stato d’Israele e la rinuncia al terrorismo. Vale a dire la rinuncia al 78% del territorio palestinese e la rinuncia al diritto alla resistenza sancito dalle Nazioni Unite. Tuttavia il coinvolgimento di Hamas sarà possibile solo in un quadro di accordo con ANP-Fatah, un accordo dal quale resteranno esclusi quelli che non accetteranno le condizioni imposte (ci sarà sempre qualcuno) e che diventeranno il nemico da combattere con beneficio di Israele e della sempre più accelerata frammentazione palestinese. L’establishment israeliano sa benissimo che l’idea dello Stato è corrosiva del concetto di “liberazione”. A questo è servita negli anni e a questo serve oggi.  La stragrande maggioranza dei palestinesi oggi vorrebbe uno Stato. Pochi i palestinesi che non lo vogliono. E’ mia opinione che i maggiori rappresentanti dei palestinesi dei territori occupati nel 1967, vale a dire, Fatah e Hamas, pur con tutti i distinguo del caso e con tutte le dovute differenziazioni, sono due organizzazioni di indirizzo populista. Questa situazione è decisamente favorevole a Israele che cerca di trarne tutti i possibili vantaggi. Tuttavia, questi non sono gli aspetti della questione per cui dubito dell’opportunità di chiedere il riconoscimento di uno Stato palestinese virtuale. Un aspetto più importante, a mio avviso, è questo:
1. Uno Stato che si fonda in base a un accordo tra governi (se non è frutto della lotta popolare) non per azione dei suoi cittadini, non può realizzare il diritto all’autodeterminazione, né quella nazionale, né comunitaria e tantomeno individuale. Altro elemento non meno importante del precedente è questo: il diritto all’autodeterminazione è un diritto inalienabile, cioè, come ci insegnano i giuristi, non frazionabile, e questo significa che non è negoziabile, non
può essere oggetto di negoziato, va solo e semplicemente realizzato.
2. Appare sempre più evidente che le azioni della politica internazionale, come i grandi cambiamenti a livello economico-finanziario, si realizzano lungo direttive dove non esiste nessun controllo pubblico di nessun tipo, né popolare (stampa, partiti, associazioni, ecc.), né rappresentativo parlamentare, e a volte nemmeno statuale. Cioè si agisce al di là delle sedi istituzionali palesi. Esiste un divario sempre più profondo tra la realtà e la rappresentazione che ne viene data. Gli esempi sono ormai innumerevoli. Un esempio immediato può essere quello della guerra in Libia. L’opinione pubblica delle nazioni coinvolte nella guerra non ha la percezione di vivere uno stato di guerra, non solo per l’enorme divario nelle armi impiegate – il controllo dei cieli rende scontato l’esito – ma anche per il totale controllo delle informazioni per cui viene celato il ruolo degli eserciti delle nazioni coinvolte, come sono celati le cause e gli obbiettivi della guerra. In altre parole: una realtà virtuale si sovrappone a una realtà tangibile fino a coprirla del tutto. Una cosa simile si presenta nella situazione palestinese. Il cosiddetto processo di pace (realtà virtuale), ha coperto la strisciante colonizzazione del territorio palestinese e la progressiva sostituzione della popolazione autoctona (realtà tangibile). Allo stesso modo, le manovre politiche dell’ANPOLP- Fatah si svolgono su un piano di realtà non tangibile. Esempio: la lotta popolare contro il muro, contro il sequestro delle terre, contro le demolizioni delle case, ecc. si svolge sullo stesso piano reale sul quale si svolgono le azioni repressive, cioè nella realtà tangibile, anche se viene coperta sempre più dalla realtà virtuale. E’ altamente probabile che la richiesta di riconoscimento di uno Stato palestinese non sarà presentata alla prossima sessione dell’Assemblea Generale dell’ONU. In caso contrario è probabile che la richiesta stessa non venga immessa nell’ordine del giorno. In ogni caso entra a far parte della realtà virtuale.
3. L’occupazione e la spartizione dei territori dell’Impero Ottomano è avvenuta con la guerra. La spartizione, avversata dalle popolazioni, ha acquisito veste legale per imposizione. I territori del Regno di Siria sono stati divisi tra la Francia e l’Inghilterra. Le due potenze hanno frammentato ulteriormente il territorio, creando nella Siria meridionale due entità statuali: Palestina e Transgiordania. Nel 1922 L’Inghilterra legalizzò il nuovo assetto presso la “bottega legale” della Società delle Nazioni. Nel territorio tra il Mediterraneo e il fiume Giordano è nato lo Stato di Palestina. Il territorio di questo Stato continua ad essere occupato da una potenza occupante che è espressione e continuazione della potenza occupante madre, nata per sua dichiarata volontà. I palestinesi, cioè la comunità umana che ha modellato la storia e il paesaggio culturale di quel territorio, hanno diritto a reclamare tutto il loro
territorio. La legalizzazione di una spartizione della Palestina è ovviamente a spese del popolo palestinese, nega i suoi diritti fondamentali, riconosciuti a tutti i popoli. La raccomandazione 181 dell’Onu non legalizza la spartizione della Palestina ed è contraria allo spirito e alla lettera della Carta delle Nazioni Unite (Ogni popolo ha diritto all’autodeterminazione).
4. L’Autorità Nazionale Palestinese (leggi OLP-Fatah) è nata in base agli accordi tra il governo israeliano e l’OLP-Fatah, detti Accordi di Oslo. Questi accordi sono stati dichiarati “decaduti” da una delle due parti contraenti, il governo israeliano. Sono quindi legalmente nulli. L’ANP non ha nessuna veste legale, ma cosa ben più importante, non è un’autorità legittima, nemmeno sul piano rappresentativo degli abitanti delle regioni occupate nel 1967 che sono circa il 30% dei palestinesi. Infatti, i deputati eletti nelle liste di Hamas al Consiglio Legislativo Palestinese, sono quasi tutti nelle carceri israeliane! Per non dire che le elezioni furono vinte da Hamas e non da Fatah e che il mandato del capo dell’ANP-Fatah, Mahmud Abbas Abu Mazen, è scaduto da anni. A maggior ragione l’ANP non rappresenta i sei o sette milioni di palestinesi in esilio (di cui 4,820,229 profughi registrati, secondo le statistiche ONU), nemmeno i palestinesi che vivono nei territori dichiarati Stato d’Israele, i cosiddetti “arabi israeliani” (oltre 1.300.000 persone). In poche parole l’ANP non ha nessuna veste, nessun diritto a negoziare a nome del popolo palestinese. E tuttavia nessun governo legittimo e legalmente riconosciuto è autorizzato a ledere i diritti inalienabili della popolazione che governa o quelli di altre, così come nessun organismo internazionale può disporre del territorio o della vita di una popolazione.
5. Gli Stati hanno ragione di essere in quanto istituzioni, volute e accettate dai cittadini, atte a realizzare e garantire i diritti degli stessi cittadini. Uno Stato che “imbroglia” sui diritti fondamentali, perde una parte della sua legittimità. Lo Stato che lede in parte o in toto i diritti dei cittadini, li nega o peggio li cede, perde ogni legittimazione. Uno Stato che compie una “pulizia etnica” e la perpetua nel tempo, compie un crimine contro l’umanità e come tale va trattato fino a quando non riconoscerà i propri crimini e cercherà sinceramente di porvi rimedio. Il diritto dei profughi palestinesi al ritorno in tutta sicurezza alle loro case e nelle loro città e il diritto all’indennizzo dei danni subiti nei sessanta tre anni trascorsi al loro esilio, è il primo passo da compiere per cominciare un percorso che porti a una convivenza pacifica, paritaria e civile tra i cittadini autoctoni, i palestinesi, e i cittadini acquisiti, gli israeliani. Le formule possono essere di diversi tipi, e tutte possono rivendicare una uguale legittimità, ma il nocciolo della questione resta sempre uno e uno solo: il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese.

Wasim Dahmash
(17.07.2011)