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Michele Giorgio, da “Il Manifesto” del 29 giugno.

Lo scontro violento tra Fatah e Hamas a Gaza, conclusosi il 15 giugno con la presa del potere da parte del movimento islamico, ha riaperto, tra l’altro, il dibattito sull’islamizzazione della società palestinese e qualcuno è arrivato addirittura a parlare di «escalation teocratica» nei Territori occupati. In tanti hanno denunciato lo Stato islamico che pure Hamas non ha proclamato a Gaza. Altri si sono affrettati a ricordare che il movimento islamico palestinese ha le sue origini nella Fratellanza musulmana egiziana descritta, senza se e senza ma, come la «madre» dell’islamismo più radicale, mescolando nello stesso pentolone il teorico del Jihad più violento come Sayyed Qutub e i leader di Hamas. Tutti uguali.
Argomentazioni non nuove che, tuttavia, dietro l’obiettivo ufficiale dell’indagine sulla cosiddetta «islamizzazione dal basso» nei Territori occupati, mira in realtà a spostare il fenomeno Hamas dal conflitto israelo-palestinese al contesto del «jihad globale». E visto che il movimento islamico è tanto popolare nei Territori occupati, questi «analisti» lasciano intendere che i palestinesi hanno meno diritto di prima alla sovranità e alla libertà. Non è peraltro estraneo a questo ragionamento il ricordare sempre più di frequente – lo ha fatto qualche giorno fa anche Liberazione – le simpatie per il nazismo del Gran mufti di Gerusalemme Hajj Amin al Husseini. L’equazione è semplice: se il mufti palestinese è stato nazista vuol dire che tutti i palestinesi di quell’epoca hanno tifato per Hitler. Una trovata perversa ma priva di qualsiasi logica. Sarebbe come accusare il tutto movimento sionista di aver collaborato con il nazismo solo perchè il suo alto funzionario Rezso Kasztner aveva avuto strette relazioni con Adolf Eichmann.
L’ideologia di Hamas è nota. Il suo progetto sociale e giuridico, fondato sulla sharia (il codice islamico), è assai lontano dall’idea di progresso e di uguaglianza tra uomini e donne che a sinistra (anche in Palestina) dobbiamo portare avanti. Ma i diritti delle donne e il progresso in realtà non interessano ad un buon numero di coloro che si scandalizzano di fronte alla società che ci fa intravedere Hamas. Queste persone «tralasciano» il dato che la sharia è già fonte di legge in tutti i paesi a maggioranza islamica e così anche in Cisgiordania e Gaza. E questo, per quanto non ci piaccia, è accettato dalla stragrande maggioranza delle popolazioni (uomini e donne) di quei paesi, pur non mancando forze politiche (minoritarie) o individui che vorrebbero una legislazione laica. Certo ci sono differenze tra Stato e Stato, la Tunisia non è il Qatar, ma sul diritto di famiglia queste diversità diventano, in gran parte dei casi, impercettibili.
Sotto l’autorità del moderato presidente Abu Mazen, oppure dei filo-occidentali re Abdallah di Giordania o del presidente egiziano Mubarak, una donna già oggi è gravemente discriminata. La famosa scrittrice egiziana Nawal Saadawi è stata costretta a emigrare non solo perché oggetto degli attacchi degli estremisti islamici ma anche perché il regime presunto «laico» non le ha offerto alcuna protezione (infatti è una esponente dell’opposizione) e perché, in ogni caso, non è «difendibile» chi critica la sharia. Nessuno tra quelli che mettono in guardia dal pericolo Hamas, punta l’indice contro Mubarak.
A differenza di Hamas, gran parte dei regimi arabi, che pure hanno le prigioni piene di dissidenti ed oppositori e praticano la tortura, non sono oggetto delle critiche della sinistra italiana preoccupata dalla «nascente teocrazia palestinese», perché sono considerati governi «amici» che tengono a bada gli islamisti e mantengono una linea moderata verso Israele.
Poco importa se negano anche loro i diritti delle donne. Abu Mazen, anche quando per oltre un anno ha controllato il parlamento, non ha fatto nulla per modificare le leggi e permettere alle donne di ottenere la custodia dei figli in caso di divorzio. Ma pochi tra quelli che si pongono interrogativi sul progetto sociale islamico, si sognerebbero di accusare il presidente dell’Anp di negare diritti fondamentali a metà del suo popolo. Così come non si permetterebbero di definire scandaloso il fatto che nel laico e democratico Israele non esista il matrimonio (e il divorzio) civile e che gran parte del diritto di famiglia sia regolato dalle corti rabbiniche (sono migliaia le coppie ebree alle quali i rabbini rifiutano il riconoscimento perché non sono sposate secondo il rito ortodosso).
L’attacco ad Hamas in realtà non avviene a causa della sua idea di società, ma perchè il movimento islamico si rifiuta di riconoscere l’esistenza di Israele, non è una forza politica amica e condanna la politica statunitense ed europea in Medio Oriente. Lo dimostra l’atteggiamento amichevole che i governi europei e l’amministrazione americana hanno nei confronti dell’Arabia saudita, paese che ugualmente non riconosce Israele, dove il wahabismo calpesta i diritti più elementari delle donne e dove anche i divertimenti più innocui, come fumare il narghilé o ascoltare la musica in pubblico, sono considerati peccato. Il segretario di Stato americana Condoleezza Rice ha dichiarato durante una visita a Riyadh che ogni paese ha i suoi tempi di sviluppo e progresso, in risposta a chi, anche nell’amministrazione, protestava per l’esclusione delle donne dal voto. La monarchia saudita a differenza di Hamas si è guadagnata l’impunità alleandosi con Washington e l’Occidente e rendendosi protagonista dell’iniziativa di pace araba con Israele. Di conseguenza può continuare a rendere le donne fantasmi e a tagliare a ritmo quotidiano le teste di persone condannate a morte per possesso di pochi grammi di hashish, senza sentirsi criticare. I leader palestinesi non hanno motivo di preoccuparsi, dovranno solo essere nostri «amici» e di Israele e in questo modo potranno fare come vorranno: sharia, corruzione, abusi e tutto il resto.