Di giorno a scuola, di notte in prigione

 

La maggior parte degli studenti va a scuola in autobus, alcuni vanno in macchina; Mohammed viene scortato dai soldati, che lo portano dal carcere fino ai cancelli dell’università. Alla fine della giornata di studio, mentre i suoi compagni si rilassano fumando il narghilé e giocando a biliardo nei bar della città, lui viene riportato nella sua cella soffocante. Il suo caso rappresenta una storia più ampia di limitazioni e di ostacoli all’educazione, per opera dell’occupazione

Incontro Mohammed (un nome fittizio per proteggerne l’anonimato) vicino a uno degli otto istituti accademici presenti in Cisgiordania. È un palestinese di 25 anni, calmo e riservato, e studia per diventare insegnante di scuola elementare.

Cinque anni fa, Mohammed lanciò delle pietre a un convoglio israeliano impegnato in una delle sue incursioni di routine, nel campo profughi dove vive lo stesso Mohammed. Per questo, non solo gli fu sparato alla gamba ma vide anche il suo migliore amico morirgli tra le braccia. ‘Non posso dimenticarlo‘ mi dice. Cominciò a dormire per strada per evitare l’arresto, ma gli israeliani avvertirono i suoi genitori che se non si fosse costituito l’avrebbero ucciso, e sarebbero venuti a distruggere la loro casa.

Mohammed venne così portato in una prigione dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), su richiesta degli israeliani. Riferisce di non aver mai subito un processo, e per i primi due anni non gli fu permesso uscire.

Dopo due anni di reclusione, gli fu concesso di lasciare la cella durante il giorno, a patto di ritornarvi entro le otto e passarvi la notte. Da sempre, Mohammed vuole diventare un insegnante di scuola elementare, e così è riuscito ad assicurarsi un posto nella migliore università della regione: niente male, per un ragazzo proveniente da un campo profughi.

Anche se il rigore accademico richiesto a tutti gli studenti è in sé già una sfida, la situazione difficile di Mohammed ha reso lo studio un obiettivo molto più grande. Lui è uno delle centinaia di studenti universitari palestinesi che hanno subito i tormenti degli israeliani. Nel 2009, ottantasette degli studenti dell’università di Birzeit si trovavano in prigione, e di questi, quarantasette non erano ancora stati dichiarati colpevoli di alcun reato.

Ogni giorno, i soldati palestinesi scortano Mohammed fino al campus universitario, e lo stesso al ritorno in carcere. Gli chiedo se riesce a studiare nella sua cella. Mi guarda incredulo: ‘Non ce la faccio a studiare!‘ mi risponde, riferendosi al caldo insopportabile. Durante l’intervista, siamo seduti in una stanza spaziosa al terzo piano, con due ventole che fanno aria sulle nostre teste e le numerose finestre della stanza aperte, ‘ma nella mia cella la finestra è minuscola‘. E con le mani mi fa il segno di un’apertura di circa 20 cm di altezza e altrettanto di larghezza.

Non sono solo le condizioni climatiche a influire sul suo rendimento, precisa, ma anche le ‘brutte sensazioni‘ che prova quando è in prigione. Di recente, il suo vicino ha deliberatamente dato fuoco alla sua cella come atto di protesta, e inavvertitamente ha dato fuoco anche a se stesso. Queste storie sconvolgenti sono ordinarie nelle carceri. Se a ciò si aggiunge la solitudine, scrivere saggi e sgobbare per gli esami è praticamente impossibile. Anche dormire diventa un problema, e Mohammed si ritrova a seguire le lezioni in uno stato di stanchezza disperata.

Mi racconta infatti di non sentirsi mai abbastanza rilassato da concentrarsi totalmente sui suoi studi. Un insegnante mi rifersce che, durante una delle ultime lezioni, Mohammed è uscito di colpo dall’aula. Il suo amico, a fine lezione, ha spiegato che ‘i soldati l’hanno chiamato, vogliono riportarlo in cella‘. Questo accade tutte le volte che l’esercito effettua un’incursione nelle aree circostanti. Se lo dovessero vedere fuori di prigione durante queste operazioni, di certo gli sparerebbero.

Mohammed mi descrive come il suo cuore si fermi ogni volta che riceve una telefonata da un numero anonimo, temendo che si tratti delle guardie che lo richiamano per andare in prigione. Gli chiedo cosa succederebbe se ignorasse la chiamata o non si presentasse alle otto. ‘Gli israeliani mi ucciderebbero‘ risponde. Non si tratta di una semplice paura. Di recente, hanno sparato a un suo compagno di prigione mentre camminava in città con gli amici. Questo è successo prima dell’inizio del coprifuoco. La vittima non ha ricevuto cure, ed è stata lasciata per terra a morire.

Mohammed è sempre all’erta, un grido o un motore che si scalda lo spingono a guardarsi nervosamente alle spalle. I suoi genitori sono angosciati dal timore per la sua incolumità, anche perché un altro figlio è stato già ucciso dagli israeliani. Mi spiega che sua madre lo chiama ogni sera alle otto per assicurarsi che lui sia tornato in cella. Ma pur temendo continuamente per la sua vita, Mohammed riesce lo stesso a mantenersi al passo con gli esami. Uno dei suoi professori, da me intervistato, lo ha definito un ragazzo ‘brillante e studioso‘.

Ogni tot mesi (da tre a sei), gli israeliani pubblicano una lista di detenuti da liberare. Pur non avendo idea su quando e se comparirà in quella lista, Mohammed prega che ciò accada presto. Desidera disperatamente andare avanti con la sua vita, finire l’università, cominciare una carriera d’insegnante – o, quantomeno, dormire nel suo letto.

(Nella foto di Memo: bambini arrestato dalle forze israeliane)