mettiamo il caso che … Mògoro come Gaza

No, state tranquilli, nessun missile ci sta per cadere addosso e no, nessuno verrà a demolire le nostre case. Ma tra Gaza e Mogoro qualcosa di simile c’è, e forse un paragone può farci capire meglio quella che è la realtà della vita nella Striscia di Gaza, un territorio lontano da noi migliaia di chilometri che regolarmente, a cadenza variabile, entra nelle nostre case attraverso i Tg e i giornali in rete, quasi sempre accostato a tristi parole come guerra e morte.

Nessuno però ci racconta mai di quella che è la vita delle persone che abitano questa sciagurata lingua di terra. Direte, cosa c’entra Mogoro, con tutto questo? Proviamo per un attimo a sovrapporre quelle che sono le caratteristiche di quella terra lontana alla nostra realtà e immaginare di vivere per un giorno nella prigione a cielo aperto che è la Striscia di Gaza.

Per iniziare, cambiamo il nome al nostro paese, non si chiama più Mogoro, lo chiameremo Gaza City. Gaza. La Città di Gaza. Questa città o metropoli che dir si voglia, ha infatti una superficie che è appena inferiore a quella di Mogoro, 45 km per la precisione. La differenza, però, è che mentre a Mogoro vivono circa 4.300 persone, a Gaza City ne vivono 450.000, un po’ come se tutti gli abitanti della provincia di Nuoro, della provincia di Oristano e del Medio Campidano si trasferissero nel nostro paese. Come se per ogni abitante di Mogoro ne spuntassero improvvisamente altri 100. Si starebbe un po’ stretti.

Ma nel resto della Striscia non si sta meglio. L’intera regione, infatti, è appena più piccola dei territori di Cabras, Oristano, Santa Giusta e Arborea messi insieme. Però, in questo territorio non ci vivono 50.000 persone come nei paesi appena citati, ma 1.650.000, esattamente come gli abitanti di tutta la Sardegna. E quasi mezzo milione di loro sono profughi, non hanno una casa, perché queste gli sono state demolite nel corso degli anni dall’esercito israeliano.

La situazione sarebbe già abbastanza opprimente così, ma ancora non ci siamo. Ora che abbiamo la nostra piccola Striscia di Gaza sarda, che per analogia potremmo chiamare Striscia di Cabras, dobbiamo completamente circondarla con una immensa barriera. Una barriera di acciaio o cemento armato, completa di filo spinato, sensori di ogni tipo, torrette comandate a distanza che sparano su qualsiasi cosa si muova. Fino a mille metri di distanza dalla barriera – in alcuni casi anche tremila – la terra viene livellata, i nostri alberi da frutto sradicati e nessuno ci può più coltivare nulla né mettere piede. Così il nostro piccolo spazio diventa ancora più piccolo1. La barriera ha due uscite: una è chiusa e viene aperta solo saltuariamente2. Per oltrepassare l’altra uscita abbiamo bisogno di speciali permessi che raramente ci vengono concessi, e comunque, dobbiamo aspettare al confine anche sei o più ore prima di passare. Vuoi andare a studiare fuori? NON PUOI. Vuoi andare a lavorare fuori? NON PUOI. Vuoi andare a trovare i tuoi amici o la tua famiglia lontana? NON PUOI. Vuoi scappare? NON PUOI. E non pensare di farlo via mare. Le imbarcazioni non possono allontanarsi più di cinque chilometri dalla costa, nemmeno per pescare, perché più in là ci sono le navi da guerra ad aspettarle3.

Ora siamo nella nostra Striscia di Cabras, circondati da un muro, impossibilitati a muoverci e schiacciati come sardine. Non è ancora finita. Nessuna merce dall’esterno può oltrepassare la barriera, non possiamo importare né cibo, né medicine, né qualsiasi altro prodotto. Possono entrare soltanto gli aiuti delle associazioni umanitarie che vengono ad assisterci4. Il cibo scarseggia, l’acqua potabile scarseggia, le medicine scarseggiano, la benzina scarseggia e l’energia elettrica scarseggia. Non sono rari i black out, programmati o improvvisi, che possono durare anche più di 12 ore. Se vogliamo mantenere un frigorifero in funzione dobbiamo procurarci una tanica di benzina che servirà da carburante per un alimentatore. Lo stesso dovranno fare gli ospedali, se vogliono mantenere al fresco medicine o sangue per i malati, che infatti spesso non possono essere curati. Niente energia elettrica, niente impianti di purificazione dell’acqua, niente acqua pulita. Le malattie aumentano, ma le medicine diminuiscono.

La nostra sopportazione è già al limite, vorremmo gridare così forte da farci sentire fin dall’altra parte del globo, ma ancora manca qualcosa: le bombe. Si, le bombe che quotidianamente potrebbero caderci in testa, da un momento all’altro. Però, prima, a volte, ci avvisano. Immaginiamo di essere seduti a tavola: stiamo mangiando il nostro piatto di malloreddus alla campidanese insieme alla nostra famiglia – se quel giorno abbiamo avuto la fortuna di avere un piatto in tavola. Squilla il telefono. Chissà chi sarà proprio all’ora di pranzo! Forse vogliono proporci un cambio di tariffa telefonica?… No! È l’esercito israeliano: “Buongiorno, stiamo per bombardare la casa accanto alla vostra, volevamo assicurarci che negli edifici vicini non ci fosse nessuno, avete 5 minuti per abbandonare la casa.” Grazie. In cinque minuti dobbiamo dire addio a tutto ciò che abbiamo e che non riusciamo a portare via con noi, e nessuno ce lo ridarà mai. Probabilmente andremo a ingrossare le file dei profughi, vagheremo senza un riparo, oppure gireremo per le strade raccogliendo detriti di case distrutte, che in assenza di materiale edile, useremo per costruirci una nuova casa, che forse qualche anno dopo verrà nuovamente distrutta.

Questa è la quotidianità di un abitante di Gaza. Questa è la situazione che porta le persone alla disperazione e, talvolta, alla scelta di combattere.

Alcune precisazioni sugli avvenimenti degli ultimi giorni: ormai i principali media nazionali hanno fatto passare l’idea che gli attacchi siano iniziati in seguito al rapimento e l’uccisione di tre ragazzi israeliani da parte di Hamas: non è vero. Il rapimento e l’uccisione dei tre ragazzi, avvenuto oltretutto in Cisgiordania e non nella Striscia di Gaza, è sicuramente un crimine da condannare, ma nessuno sa chi siano i responsabili. Il premier israeliano Netanyahu ha ipotizzato fosse stato Hamas, Hamas ha smentito5. Ciò nonostante, nei giorni successivi al rapimento, l’esercito israeliano è andato di casa in casa ad arrestare centinaia di giovani e giovanissimi palestinesi, senza alcun capo d’accusa. Ne son seguiti lanci di pietre, che sono stati contrastati da proiettili che hanno ucciso diverse persone6. Dai proiettili si è passati ai razzi fino ad arrivare all’attuale situazione, con, al momento, 17 luglio, 237 morti tra i palestinesi e 1 tra gli israeliani.

La polizia israeliana tortura sistematicamente i prigionieri, anche minori. L’ultimo caso che ha fatto il giro del mondo è uscito dai confini nazionali poiché è capitato a un cittadino statunitense. Tariq Abu Khdair, quindicenne, a inizio luglio si trovava in vacanza dalla sua famiglia in Palestina, quando suo cugino è stato rapito e bruciato vivo. Ne son seguite delle manifestazioni di protesta, nel corso delle quali Tariq è stato arrestato. Il 6 luglio è stato rilasciato su cauzione e senza nessun capo d’accusa, ma con il volto e il corpo tumefatto a causa delle violenze subite nel periodo di custodia7.

Dall’anno 2000 all’anno 2014 l’esercito israeliano ha ucciso oltre 1400 minori palestinesi, uno ogni 4 giorni8.

Israele, insieme ad altri sette Paesi tra i quali la Siria e la Corea del Nord, non aderisce all’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, armi che ha usato contro i civili palestinesi nel corso dell’operazione “Piombo Fuso” del dicembre 20089.

Israele, insieme a India, Pakistan, Sud Sudan e Corea del Nord non ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare10, che prevede l’uso del nucleare solo per fini pacifici.

In Israele ci sono tantissime persone fantastiche che si oppongono alla pulizia etnica che il loro Paese porta avanti nei confronti del popolo palestinese, ma per il momento, purtroppo, nessuno gli ascolta.

Marco Piras


1http://www.ochaopt.org/documents/ocha_opt_special_focus_2010_08_19_english.pdf

2 Nel luglio del 2013 l’esercito egiziano ha spodestato il presidente eletto Mohammed Morsi. Dopo aver preso il potere ha chiuso il valico di Rafah al confine con la striscia di Gaza. (http://www.haaretz.com/news/middle-east/1.534042http://www.haaretz.com/news/middle-east/1.582644)

3 L’accordo di Gaza-Gerico siglato tra Israele e l’OLP nel 1994 (http://www.carim.org/public/legaltexts/LE3ISR344_1297.pdf) prevede che le imbarcazioni palestinesi possano allontanarsi fino a 35 km dalla costa, ma il governo israeliano ha deciso unilateralmente di restringerli a 5 (http://www.ochaopt.org/documents/ocha_opt_gaza_blockade_factsheet_june_2012_english.pdf).

4 Dal 2007 vige un duro embargo sulla Striscia di Gaza, e la sua popolazione dipende per l’80% dagli aiuti umanitari. (http://www.fao.org/fileadmin/templates/cfs_high_level_forum/documents/FS_Challenges_Innovation_-Gaza_Arab_Group.pdf) Altre merci entrano illegalmente nella Striscia attraverso tunnel sotterranei al confine con l’Egitto.

10La Corea del Nord inizialmente ha firmato il trattato, ma successivamente si è ritirata.