Storie di vita dalla Palestina occupata_5

Storie di vita dalla Palestina occupata_5

Yassin Abu Khadir

 (a cura dell’Associazione Amicizia Sardegna Palestina)

È sera quando arriviamo a casa di Yassin. Ad accoglierci amici e parenti, in realtà un vero e proprio gineceo: ci sono almeno 8 donne sedute a prendere il te e a chiacchierare, c’è anche una signora in abiti tradizionali palestinesi che arriva da Gaza. Le hanno concesso un permesso speciale per venire a Gerusalemme, perché è malata di cancro. L’atmosfera è quella di una ricorrenza particolare. Yassin è un bel signore, ha un tono basso, si fa quasi fatica a sentirlo in mezzo a tutto quel vociare, parla lentamente aspettando che le parole giuste gli arrivino, ci spiega che sono più di vent’anni che non parla inglese, ma non commette alcun errore. Ci aspettiamo rabbia, perché 26 anni di carcere sono oltre una vita, invece ciò che avremo è calma e speranza.

“Mi chiamo Yassin Abu Khadir. Sono nato a Shuafat, un quartiere ad est di Gerusalemme, 5 kilometri a nord dalla porta di Damasco. Ho frequentato la scuola superiore a Gerusalemme e poi sono andato all’Università. Pochi mesi dopo la conclusione dei miei studi, ho cominciato a lavorare in un giornale, la cui sede si trovava vicino all’autorità israeliana. Ero un attivista in un’associazione studentesca prima e sostenitore del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) poi.

Mi sono unito all’ala militare del FPLP, è stato allora che ho preso parte, insieme ad altri, a due azioni contro i coloni israeliani. In una delle azioni due di loro rimasero feriti ed uno ucciso. Un anno dopo hanno arrestato me e gli altri del gruppo per la nostra attività politica, tre di noi sono stati scarcerati con lo scambio di Shalit , altri due sono stati rilasciati nei negoziati fra l’autorità palestinese e gli israeliani, io sono l’ultimo ad essere stato rilasciato.

Ho speso 26 anni della mia vita in prigione. In carcere ero uno dei leader. Ho continuato a studiare, mi sono laureato in scienze politiche nel 1990 e ho cominciato a studiare per un master in Studi Democratici, ma il governo di Israele ha impedito a tutti i detenuti di studiare e di portare a termine la nostra istruzione superiore. 26 anni di prigionia mi hanno reso una persona nuova. La vita in carcere è molto dura e complicata, perché siamo in tanti e combattiamo per le nostre vite e per mantenere la nostra dignità, per ottenere i nostri diritti, mentre le autorità israeliane tentano costantemente di umiliarci. Questa esperienza mi ha reso più forte, ha consolidato la mia ideologia e mi ha reso più paziente. Credo che adesso il mio dovere sia di combattere l’occupazione in modo diverso, non più con le azioni armate. Viviamo un conflitto non solo contro gli israeliani, ma anche all’interno della Palestina stessa e con altri paesi arabi. Questo ci rende più deboli nel contrastare l’occupazione. Non abbiamo gli stessi strumenti per combattere che ha Israele e crediamo che tutte le nazioni del mondo, ma in particolar modo le nazioni più potenti, come Russia, Regno Unito, Cina e Francia, abbiano il dovere di boicottare l’occupazione israeliana e supportare la nostra gente, affinché possa ottenere l’indipendenza e la libertà. Sono passati vent’anni dall’inizio dei negoziati con Israele del 1993. Vent’anni di negoziati per non ottenere nessun risultato, se non l’aggiunta di nuove colonie ogni giorno che passa, costruite sulla nostra terra nonostante siano considerate illegali anche dalla legge internazionale. Ai nostri occhi, come palestinesi, è la nostra terra e tutto il mondo dovrebbe aiutarci a riappropriarci dei nostri diritti, in modo da avere la possibilità di vivere come tutte le altre persone. Possiamo dare il nostro contributo al mondo, in termini di scienza e cultura, ma non abbiamo opportunità di sviluppo. L’occupazione è come lo scoglio sul quale s’infrangono le aspirazioni di noi palestinesi.

Ho molti parenti che non ho mai visto, li ho conosciuti dopo essere stato rilasciato poiché l’occupazione israeliana ha impedito loro di poter venire in carcere a farmi visita. La maggior parte dei miei vicini di casa, circa l’80%, li sto incontrando adesso per la prima volta. Durante la mia prigionia ho perso mio padre, mia madre, due dei miei fratelli e ora che sono tornato a casa voglio stare con la mia famiglia, i miei parenti. Abbiamo una famiglia molto grande. Spero – dice guardando i nipoti seduti di fronte a lui- di poter comunicare loro cosa ho passato in carcere e di poter dar loro il meglio della mia esperienza affinché possano costruire una nuova generazione di esseri umani. Ci sentiamo come il popolo del Sud Africa durante il regime dell’apartheid.

La vita in prigione potrebbe assomigliare alla vita fuori, ma è più complicata perché bisogna vivere tutti insieme in un posto piccolo e chiuso. Tutti proveniamo da ambienti politici totalmente diversi: ci sono le organizzazioni islamiche, quelle marxiste, come l’FPLP e tutte le altre diverse correnti politiche. All’interno della prigione dovevamo vivere come una comunità democratica, eleggere i nostri leader e ponderare tutte le nostre azioni, per essere più forti nel confronto con le autorità israeliane e per poter spiegare alle nuove generazioni che vengono arrestate come vivere in prigione e come restare umani in questa situazione. Nella vita in prigione la solidarietà e l’unita di tutti i detenuti sono le cose più importanti per far valere i nostri diritti oltre a poter mantenere il contatto con i detenuti delle altre carceri e con la nostra gente che ci supporta per tutto il tempo.

Sono stato in 5 o 6 prigioni diverse: Bir Shebah, Ramleh, Ashqelon, Hasharon, Shatta e Gilboa, dove ho trascorso gli ultimi sei anni. Le prigioni sono diverse l’una dall’altra intanto per il clima dell’area in cui si trovano e poi per la loro gestione. Non c’è ovunque la stessa situazione: nelle prigioni del nord di Israele, per esempio, la maggior parte di coloro che ci lavorano sono drusi, i quali nel loro tentativo di eccellere agli occhi degli israeliani sono peggio degli altri, più violenti. Ho notato negli ultimi sei anni con l’avvento della destra del Likud al governo, come anche la situazione nelle carceri sia peggiorata.

Tutti i negoziati che vengono fatti, non sono finalizzati alla pace, ma sono una strategia di Israele, una tattica per prendere tempo ed espandersi ancora di più in tutta la Cisgiordania e continuare la costruzione del muro, in modo da poter creare dei “ghetti” per i palestinesi, così da poterli controllare meglio.

Dal mio punto di vista la soluzione è ritirare tutte le colonie ritornando ai bordi del 1967 con la soluzione dei due stati e il permesso ai rifugiati di tornare nei loro villaggi. Perché gli ebrei di tutto il mondo possono arrivare in Israele e vivere in questa terra, mentre ai rifugiati, che sono stati cacciati dalle loro case, non è permesso tornare? Non si tratta di un diritto personale, ma di un diritto politico: anche se i rifugiati palestinesi che ormai vivono altrove decidono di non tornare, è un loro diritto poterlo fare.

C’erano più di 250 ragazzini che vivevano in una parte separata del carcere, isolata dagli adulti, in condizioni di vita pessime, senza la madre, senza la famiglia. Immagina cosa vuol dire mettere otto ragazzini dai 12 ai 17 anni, -si volta ancora verso i nipotini che lo ascoltano attentamente- tutti insieme, in una stanza, talvolta per anni, non solo mesi. I ragazzini israeliani che vengono arrestati, hanno molti più diritti dei nostri, possono scontare le pene svolgendo lavori socialmente utili, vengono inseriti in particolari programmi di rieducazione, possono comunicare con le famiglie e c’è costante comunicazione fra le famiglie e le autorità. I ragazzini palestinesi sono totalmente abbandonati, prendono l’uno dall’altro abitudini di vita sregolate, iniziano a fumare prestissimo, perché non c’è nessuno che spieghi loro cosa sia giusto e cosa no. Ma nonostante tutto rimangono forti.

Ne ho conosciuto tanti che, compiuti i 18 anni, passano nell’ala degli adulti e con cui dovevamo cominciare tutto da capo. Spiegare loro le basi dell’educazione e dell’istruzione, qual era il giusto modo di comportarsi, insegnargli a vivere in carcere, a capire come rapportarsi con le autorità.

Le autorità israeliane hanno posto delle condizioni al mio rilascio: non mi è permesso di andare in Cisgiordania, né in nessun’altro posto all’esterno dei confini di Israeliani. Mia sorella vive a cinque minuti da casa mia, ma oltre il muro e non posso andare a trovarla e lei non può venire a trovare me, a meno che non le venga dato un permesso particolare e comunque non posso vedere tutto il resto della sua famiglia. Ogni mese devo andare alla polizia a firmare perché sappiano che sono qui.

Ho lasciato i miei cugini in carcere, si trovano nel sud, nel deserto, dove oltre a soffrire il caldo, sono molto lontani dalle loro famiglie e devono avere a che fare con la diversa gestione delle carceri. L’organizzazione israeliana delle carceri si divide in tre grandi aree: nord, centro e sud, ciascuna è diversa dall’altra. In tutte i soldati sono molto giovani, hanno 18 anni circa e cambiano ogni due anni: era difficile rapportarsi con loro perché molto più giovani di noi. A nord ci sono i drusi, estremamente violenti, nel sud i prigionieri di Fatah sono divisi da Hamas, quelli dell’FPLP sono talvolta con l’uno, talvolta con l’altro, poiché sono un equilibrio fra le due parti.

Ora che sono uscito dal carcere dopo 26 anni ci sono tre cose fondamentali che devo fare: sottopormi a delle cure mediche, sposarmi e concludere il mio master in Studi Democratici.

Per ora ho iniziato con le cure mediche, poi farò tutte le altre cose. -si volta sorridendo verso le donne che parlano fra di loro- ciascuna di loro ha una pretendente per me, devo solo scegliere una moglie.”

Teresa Batista