Detenzione amministrativa e violazione del diritto internazionale umanitario: il modello di sicurezza israeliano.

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Si susseguono in questi giorni, in Cisgiordania come a Gaza, manifestazioni in supporto della campagna contro la detenzione amministrativa dei prigionieri palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane e spesso coinvolti in estenuanti scioperi della fame.

A turno, un prigioniero assurge a simbolo della campagna contro la detenzione e contro le durissime condizioni a cui sono sottoposti i detenuti palestinesi in Israele e il suo nome finisce per racchiudere i nomi di tutti i “compagni” che stanno condividendo il tragico destino all’interno delle prigioni.

Attualmente è il nome di Bilal Kayed a fare da “cassa di risonanza” delle istanze dei prigionieri. Bilal ha già scontato una pena di 14 anni e mezzo ma a giugno, lo stesso giorno fissato per la sua liberazione, le autorità israeliane hanno deciso di condannarlo ad altri sei mesi di detenzione amministrativa, senza una accusa precisa.

Bilal, membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e sospettato di essere membro delle Brigate Abu Ali Mustafa, porta avanti come protesta, ormai da più di 40 giorni, uno sciopero della fame insieme ad altri detenuti.

La detenzione amministrativa è quel procedimento penale che permette all’esercito di occupazione israeliano di trattenere i prigionieri a tempo indeterminato e basandosi su informazioni segrete, senza un’accusa specifica e impedendo lo svolgimento di un regolare processo. Viene usata in particolare contro i palestinesi nei Territori Occupati (Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza), ma può essere rivolta anche a cittadini israeliani e internazionali. Fino ad oggi, però, solo nove coloni israeliani sono stati tenuti prigionieri sotto detenzione amministrativa.

Secondo il sito di Addameer, l’associazione che offre supporto ai prigionieri politici palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, dal 1967 Israele ha arrestato più di 800.000 palestinesi e l’utilizzo di questa pratica si è intensificato dopo lo scoppio della Seconda Intifada del 2000.

Attualmente, sempre secondo le stime di Addameer datate maggio 2016, il totale dei prigionieri in detenzione amministrativa nelle carceri israeliane ammonta a circa 715 individui.

Nella maggior parte dei casi, ai detenuti e ai loro avvocati non è dato conoscere il reale motivo della detenzione, basata su informazioni segrete, in modo da garantire l’incolumità della fonte delle informazioni.

Spesso anche il luogo della detenzione è tenuto segreto, rendendo più difficili le visite dei familiari già sottoposte a regole durissime. Infatti, i parenti che desiderano visitare i detenuti devono essere in grado di ottenere un permesso speciale che consenta loro di entrare nello stato di Israele e questo crea non pochi problemi agli abitanti della Cisgiordania e di Gaza. In genere, solo ai membri della famiglia sotto i 16 anni o sopra i 64, è concesso visitare i detenuti. Inoltre, proprio il fatto che gran parte dei centri detentivi si trovi su territorio israeliano va a scontrarsi con le norme di diritto internazionale, che vietano allo stato occupante di trasferire i detenuti sul proprio territorio.

Questa modalità detentiva, basata sul sospetto e sulla segretezza, va a violare una serie di diritti basilari del detenuto che dovrebbero essere garantiti a livello internazionale, tra cui la possibilità di conoscere il motivo esatto della detenzione e delle accuse imputate al momento stesso dell’arresto.  Non solo, ma la mancata conoscenza dell’accusa “reale”, previene una difesa adeguata e rende chiunque suscettibile di essere accusato/a e arrestato/a, creando un clima di terrore e una certa pressione psicologica.

Negli ultimi tempi i media sembrano supportare l’idea dell’adozione da parte dei governi europei di un “modello israeliano di sicurezza” e di democrazia; in altre parole le politiche, non propriamente democratiche, di Israele vengono costantemente imitate e incoraggiate dai sistemi occidentali, impegnati nel nobile intento di garantire la sicurezza combattendo il terrorismo. Basti pensare anche a quelle che sono state chiamate in passato extraordinary renditions (o consegne straordinarie) nel periodo immediatamente successivo all’attacco alle Torri Gemelle e all’inizio della cosiddetta “guerra al terrore”.

Proprio stamane, la rassegna stampa di un noto TG nazionale, riferendosi agli attentati di Francia e Germania degli ultimi giorni e mettendoli appositamente in relazione con la recente immigrazione dai paesi africani o Vicino Orientali, ha riportato le seguenti parole:

“ (…) così come fa Israele, l’unico paese che ha imparato a sopravvivere con la minaccia terroristica”.

Non è lontana quindi l’ipotesi che la detenzione amministrativa, così come anche altre forme di controllo e restrizione delle libertà individuali, vengano accettate e integrate nella legislazione dei nostri paesi, proprio in funzione della “buona riuscita” di queste pratiche messe in atto da Israele, arrivando a un punto in cui il solo sospetto può valere la reclusione.

Questo articolo vuole essere dunque un piccolo contributo informativo, in solidarietà con i prigionieri e con le loro famiglie, ma vorrebbe anche far riflettere sulla percezione di Israele come modello positivo di sicurezza, libertà e democrazia.

Un paese che da sempre ha fatto della questione “sicurezza” il suo cavallo di battaglia, erigendo muri, checkpoint, sperimentando un sistema di controlli in ingresso e in uscita dal paese che non ha eguali: un paese che agisce in nome di quella sicurezza che per primo contribuisce a minare.

Se è vero quanto affermato dalla nostra stampa, ossia che Israele ha imparato a convivere con il terrorismo, è semplicemente perché di quel terrorismo è il primo fautore e di quello stesso terrorismo si alimenta.

Il porre l’accento sulla piaga dei detenuti palestinesi e sulla disumanità della detenzione amministrativa assume, inoltre, un altro significato, prettamente politico: alcuni, infatti, hanno sostenuto che è proprio all’interno delle carceri che il popolo palestinese ritrova l’unità politica; quella stessa unità politica che Israele, da sempre, ha cercato di minare attraverso la dispersione del popolo palestinese prima, impedendone il Ritorno e, infine, creando al suo interno quel sistema di classe e di privilegi che contribuisce a mantenere lo status quo del regime di occupazione disgregando le masse. Il riferimento è ovviamente all’apparato dell’ANP, che attraverso la sua non troppo celata collaborazione con l’occupante israeliano è complice, e allo stesso tempo vittima, del modello israeliano di controllo e di sicurezza.

Da domenica anche Ahmad Sa’dat, Segretario generale del FPLP, in carcere dal 2002, inizierà lo scioperò della fame, in solidarietà con Bilal Kayed e tutti gli altri detenuti.

 

Anna Maria Brancato

 

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