GAZA, COME TOPI IN UNA SCATOLA

Gli appunti di viaggio di Vincent Friend. Con foto scattate al valico di Erez, tra la Striscia di Gaza e Israele.

Gaza, 14 ottobre 2010, Nena News – Ad un ipotetico viaggiatore suggerisco un tour nella Striscia di Gaza, ammesso che riesca ad ottenere il permesso per entrarvi, visto che viene rilasciato solo dalle autorità militari israeliane, per il valico di Erez, e da quelle egiziane, per il transito di Rafah. Ricordate quel film ambientato nel futuro dove la città di Manhattan era diventata un carcere (Fuga da New York, di John Carpenter) dove vi venivano abbandonati i prigionieri? E dove gli accessi e le uscite erano sigillati e controllati dai soldati?  Beh, non dovete più aspettare il futuro e neppure andare al cinema. Gaza è già tutto questo, a differenza che lì non vivono persone che devono scontare pene per aver commesso crimini efferati ma vivono  da decenni famiglie normalissime, persone qualsiasi, con l’unica «colpa» di essere nati a Gaza. Certo da Gaza venivano e, ora sempre meno, lanciate operazioni armate o razzi contro Israele ma Tel Aviv il conto lo fa pagare a tutti gli abitanti (1,6 milioni) e non solo ai miliziani.

Il valico di Erez, la porta di comunicazione di Gaza con Israele,viene aperto dalle 7.30 del mattino e richiuso alle 15. Dalla  domenica al giovedì, perché il venerdì il transito chiude e riapre dopo due giorni. A Rafah invece dettano legge gli egiziani. Da quando c’è stato il massacro di nove civili turchi sulla nave Mavi Marmara diretta a Gaza, compiuto il 31 maggio scorso da commando israeliani, il presidente egiziano ha deciso di allentare la presa su Gaza. Così Rafah è generalmente aperto ma per attraversarlo un palestinese deve essere gravemente ammalato, avere un visto di ingresso per un altro Stato (e andare direttamente all’aeroporto del Cairo). Oppure essere in possesso di un permesso speciale.

Da più di 10 anni è vietato per i residenti di Gaza lasciare la Striscia senza un permesso israeliano, anche se devono recarsi in Cisgiordania. Questo piccolo lembo di territorio palestinese è circondato interamente da alti muri e recinzioni e il confine è sorvegliato da centinaia, forse, migliaia, di telecamere e di sistemi di sparo automatici per evitare possibili «infiltrazioni». Sia che si tratti di persone armate che di civili ed infatti le uccisioni di palestinesi a ridosso delle recinzioni sono frequenti.

Vi sono delle motivatissime fanciulle, in divisa militare o con l’uniforme di una società di sicurezza, che passano il loro tempo guardando nei monitor tutto ciò che si muove intorno, nei campi coltivati, sulle spiagge e probabilmente anche nelle vie del capoluogo Gaza city. Quando ho attraversato il valico di Erez mi hanno spiegato candidamente che dipende anche dalla loro attenzione la sicurezza di Israele. Gaza per loro, che non vi sono mai state, è solo un territorio popolato da terroristi pronti a lanciare razzi o a farsi esplodere, allo scopo di «copulare in paradiso con 72 vergini».

I palestinesi non possono uscire, tranne rare eccezioni. Ma entra un certo numero stranieri: reporter, funzionari dell’Onu, rappresentanti diplomatici ma anche gli operatori umanitari, delle Ong, della Croce rossa, della Caritas. Tutti, al ritorno, vengono accuratamente controllati, con macchiari elettronici sofisticati, come se fossero dei terroristi pericolosissimi.

Il valico di Erez è un terminal, ironia della lingua, grande quanto un aeroporto di provincia, ma all’interno contiene le più sofisticate tecnologie di sicurezza forse al mondo. Quando ti presenti agli sportelli delle acidissime e giovanissime poliziotte, addette al controllo dei passaporti sembra che facciano di tutto per innervosirti. Perché se lasci Israele per andare a Gaza, allora sei una persona poco affidabile, comunque sospetta, perché si reca nella «roccaforte dei terroristi».

Ricevuto finalmente il visto, passi da una porta di ferro, e sei fuori da tutta la tecnologia visibile ma vieni accompagnato invisibilmente tramite vari tornelli così stretti che consentono il passaggio con fatica, fino ad un ultima porta di acciaio che viene aperta talvolta dopo molto minuti di attesa. Dopo sei all’aperto ma in un tunnel di grate di metallo lungo circa un chilometro che attraversa la  cosiddetta «terra di nessuno» (ma all’interno di Gaza) o come amano dire gli israeliani «la fascia di sicurezza», alla fine della quale vi sono i tassisti palestinesi che ti condurranno alla tua destinazione.

Nonostante l’impossibilita di movimento e di comunicazione Gaza city ha una parvenza di città normale nel dramma del pesante embargo israeliano che da anni tiene stretto in una morsa soffocante questo territorio palestinese. I giovani frequentano le scuole e l’università, le coppie si sposano, cercando tra mille difficoltà di vivere il più dignitosamente possibile. A Gaza city, sul lungomare, vi sono anche hotel e ristoranti di buona qualità ma a frequentarli sono soltanto gli stranieri e i pochissimi palestinesi ricchi. Tutti gli altri non possono permetterselo e l’unico lusso che conoscono è, d’estate, trascorrere qualche ora in riva al mare, in famiglia.

Tutti gli abitanti di Gaza percepiscono la loro vita come quella di topi da laboratorio, che girano in tondo in una scatola senza uscite. L’unica fonte reale di sopravvivenza in questa «prigione a cielo aperto» sono gli aiuti umanitari, i rifornimenti limitati che lascia entrare Israele e quanto arriva dai tunnel sotterranei tra Gaza e L’Egitto. (FINE PRIMA PARTE).

Nena News