Istruzione contro povertà: cinque giornate tra i campi profughi del Libano

Arriviamo a Beirut a notte fonda. Sono le prime ore di martedì 13 settembre. I controlli in aeroporto sono solo un assaggio della confusione che regna nel Paese e una volta usciti fuori, ad accoglierci troviamo una città completamente al buio. Ci lasciamo le luci dell’aeroporto alle spalle e ci immergiamo nelle strade scure, dove il traffico non è ancora quello delle ore mattutine e pomeridiane in cui regna il caos e l’anarchia ma tutti, pedoni e veicoli, sembrano rispettare un codice non scritto che, ai nostri occhi, funziona.

Raggiungiamo il quartiere Hamra, dove alloggeremo. Simbolo della vita notturna di un tempo, la ritroviamo praticamente deserta a mostrare tutti i segni della sofferenza che colpisce la popolazione intera. Poche luci e nessun avventore nei locali. Il ricordo di quella che era conosciuta come la “Svizzera del Medio Oriente” è ora lontano. L’embargo dei Paesi occidentali alla Siria e all’Iran, due economie strettamente legate a quella libanese, ha avuto conseguenze devastanti: prezzi alle stelle, moneta svalutata, conti bancari congelati e nessuna possibilità di prelevare i propri risparmi. I contanti si possono trovare al mercato nero e il cambio oscilla continuamente rendendo la moneta locale carta straccia.

Durante la nostra permanenza, ci sono stati almeno sette tentativi da parte dei cittadini di entrare in banca e farsi consegnare i propri soldi. Si badi bene dal considerarle rapine: sono atti di disperazione di persone che reclamano i propri risparmi, in un Paese in cui anche la piccola-media borghesia accusa il colpo della crisi: professori universitari lasciati senza stipendio; medici non pagati costretti a emigrare, contribuendo ad aggravare la carenza di personale medico negli ospedali; forze di sicurezza che cercano alternative alla paga da fame dello stato.

Per quanto la crisi ci circondi e sia palpabile ed evidente, la nostra delegazione, formata da una rappresentanza dell’Associazione Amicizia Sardegna Palestina e del Comune di Quartu Sant’Elena non si può fermare. La nostra missione è, infatti, monitorare le attività del progetto di cooperazione “Istruzione contro povertà: Percorsi didattici alternativi per i rifugiati in Libano” finanziato dalla Regione Sardegna, che stiamo portando avanti in collaborazione con il Comune di Quartu Sant’Elena e con il nostro partner libanese, l’Associazione Nuwat – Social Solidarity Centre.

Il progetto è destinato ai giovani dei campi profughi con un’età compresa tra i 6 e i 14 anni, che hanno abbandonato la scuola o che presentano difficoltà nell’apprendimento non per forza dovuta a fattori cognitivi. Focalizzandosi sull’importanza dell’istruzione e dell’apprendimento, Nuwat si propone di sensibilizzare gli studenti e le loro famiglie sui temi del lavoro minorile e dei matrimoni precoci, che ancora rappresentano una piaga nei campi.

Dall’incognita di una città pronta a esplodere, ci rifugiamo quindi nel “caos calmo” delle periferie dei campi che, almeno alcuni di noi, già conoscono bene.

Sono più di 500.000 i soli rifugiati palestinesi registrati presso l’UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente)  che vivono in Libano. I primi, arrivarono nel Paese dei cedri come conseguenza dell’espulsione dalla Palestina, avvenuta a seguito dell’istituzione dello stato di Israele nel 1948. Per far fronte all’emergenza vennero quindi istituiti i primi campi profughi, alcuni di questi esistono ancora oggi. Attualmente sono dodici i campi profughi ufficiali gestiti dall’UNRWA, più una serie di insediamenti informali (gathering) che non rientrano nei perimetri riconosciuti dall’Agenzia, con gravi conseguenze per ciò che concerne la fornitura di servizi (in particolar modo, quelli sanitari, l’elettricità, i servizi fognari e di nettezza urbana).

Il numero dei rifugiati palestinesi in Libano è, però, soggetto a dibattiti e controversie, dal momento che la cifra indicata dall’UNRWA non tiene in considerazione coloro registrati esclusivamente presso le autorità libanesi (in maggioranza registrati presso la Croce Rossa a seguito del ’48; successivamente, presso il Ministero dell’Interno durante le ondate successive al ’67). Non tiene in considerazione neanche il numero di palestinesi non registrati con alcuna istituzione e, quindi, privi di documento di identità, arrivati nel Paese principalmente a seguito del Settembre Nero in Giordania.

Per quanto i dodici campi ufficiali presentino ognuno delle proprie specificità (alcuni, infatti, hanno subito più di altri le conseguenze della guerra civile libanese essendo stati distrutti o pesantemente danneggiati durante l’invasione israeliana del Paese; altri hanno subito maggiormente l’impatto della crisi nella vicina Siria in atto dal 2011, quando altre migliaia di profughi siriani si sono riversati in Libano), è possibile individuare problematiche comuni.

Prima fra tutti il sovrappopolamento e la mancanza di un piano infrastrutturale o abitativo. Il territorio dei campi è spesso delimitato da un perimetro fisso e non espandibile (1km quadrato); le abitazioni vengono costruite in verticale, spesso senza prestare attenzione ai volumi sottostanti, con lo scopo di accogliere le successive generazioni familiari. L’altezza e la vicinanza estrema delle case non solo mette a dura prova la privacy degli abitanti, ma impedisce anche un corretto ricambio d’aria e una giusta esposizione alla luce solare. Sono frequenti tra la popolazione, infatti, problemi respiratori dovuti a una eccessiva umidità.

Il sovraffollamento è dovuto anche alla impossibilità per i palestinesi di costruire e acquistare abitazioni al di fuori dei campi. Le autorità libanesi hanno svariate volte impedito la ricostruzione di campi precedentemente distrutti. Nahr el Bared, che visiteremo, può essere considerato un’eccezione.

La corrente elettrica è un vero problema in tutto il Paese, ancor di più all’interno dei campi. Infrastrutture obsolete e l’assenza di volontà e capacità politica fanno si che la fornitura statale di eneregia elettrica sia insufficiente e, solo chi ha i mezzi economici, può far ricorso a generatori elettrici privati per i propri basilari bisogni domestici. Prima della crisi economica e sociale che ha raggiunto il culmine nel 2019, i campi ricevevano circa 8 ore di elettricità al giorno. In svariate zone è stata adesso ridotta a 4 o anche a una sola ora. Oltre a questo, i cavi penzolanti si aggrovigliano tra una casa e l’altra, rappresentando una delle maggiori cause di morte per folgorazione all’interno dei campi.

L’accesso ai servizi educativi e sanitari pubblici libanesi è interdetto ai palestinesi, che devono rivolgersi UNRWA (almeno per i bisogni basilari) o fare ricorso al privato.

Una delle piaghe che maggiormente affligge i palestinesi in Libano è la disoccupazione dovuta all’impossibilità di praticare una serie di mestieri professionalizanti al di fuori dei campi. Infatti, la legge prevede che solo i membri delle associazioni professionali libanesi possano praticare mestieri quali medico, avvocato, notaio o farmacista, per esempio. Gli stranieri possono a loro volta creare associazioni professionali, ma queste sono garantite dal cosiddetto “principio di reciprocità”. Non essendo cittadini di alcuno stato e non potendo garantire alcuna reciprocità, i palestinesi non hanno diritto di far parte o creare associazioni di questo genere. Questo stato di cose non solo aumenta il tasso di disoccupazione fra i giovani, ma influisce sulle motivazioni che li spingono a non proseguire gli studi, non vedendo opportunità di realizzazione futura.

Non perdiamo tempo e iniziamo la nostra missione dal campo profughi palestinese Burj El Barajne, alla periferia di Beirut, non lontano da Shatila.

Il partner, l’Associazione Nuwat – Social Solidarity Centre, ci accoglie nella propria sede dove gli alunni stanno portando avanti alcune attività previste per il nostro arrivo. Gli insegnanti insegnano loro a recuperare materiali e riciclarli, creano giochi o altri oggetti da bottiglie di plastica, scatole di cartone o rotoli di carta igienica. Tra qualche giorno, per alcuni di loro, ricomincerà la scuola del’UNRWA.

Nuwat nelle sue varie sedi porta avanti progetti che spaziano in diversi ambiti e collabora con varie organizzazioni locali e internazionali, come per esempio la Caritas Spagnola. Non si può, inoltre, non notare che il team operativo è composto quasi interamente da donne giovanissime.

Il partner ci mostra l’ultimo piamo dell’edificio dove si trova un piccolo terrazzo. L’intenzione è quella di sistemare questo spazio per offrirlo a ragazzi che frequentano il Centro. Il campo, infatti, non possiede spazi aperti adeguati in cui giocare e distendersi e questo, seppur piccolo, sarebbe un modo diverso per far trascorrere loro gli intervalli tra una lezione e l’altra. L’idea, potendo recuperare i fondi necessari, sarebbe quella di creare una copertura, isolare lo spazio e magari piantare alcune piante, di modo che i ragazzi possano iniziare a prendersene cura, stimolando, così, anche un sentimento di responsabilità verso la natura e verso l’ambiente. Nel mentre, questo spazio aperto è stato utilizzato, in particolare quando il tempo lo ha permesso, per portare avanti gli incontri con i genitori e gli alunni. Tra i temi trattati in queste occasioni il Covid-19, l’importanza dell’istruzione, i problemi legati al lavoro minorile e ai matrimoni precoci.

Proseguiamo con una visita al campo di Shatila. Il campo è noto per essere stato il teatro del massacro perpetrato ai danni della popolazione palestinese per mano delle Falangi libanesi (partito nazionalista, cristiano maronita) e dell’Esercito del Libano del Sud (milizia sostenuta da Israele), a loro volta aiutati da reparti dell’esercito israeliano nel 1982, in seguito all’occupazione israeliana di Beirut in piena guerra civile libanese. L’efferatezza di quel massacro costò la vita a più di 3000 persone e il suo ricordo è ancora molto vivo tra gli abitanti del campo.

Il campo di Shatila non è inserito all’interno del progetto ma ci ha dato la possibilità di incontrare diverse associazioni, tra cui il Comitato delle Donne Popolari del campo, con cui abbiamo avuto piacere di parlare. Il Comitato è guidato da Manar, sociologa di formazione, che si pone come obiettivo quello di fornire strumenti di empowerment a sostegno delle donne in vari ambiti. Sono più di 40 le donne che fanno parte del comitato e che partecipano a diverse attività formative ed educative, come corsi di formazione, di ricamo, di primo soccorso insieme alla Protezione Civile del campo.

Hanno in progetto l’attivazione di corsi di alfabetizzazione di base per adulti e bambini e recuperano vestiti e tessuti usati che possono essere riciclati e riutilizzati. Durante il nostro incontro, alcune di loro hanno preso parola per ribadire quanto la sede del Comitato sia diventata per loro una seconda casa in cui trovano sostegno e appoggio dalle altre. Il Comitato non riceve alcun aiuto economico e, per questo, hanno istituito una cassa comune per far fronte a eventuali spese improvvise di una di loro. Da quando partecipano agli incontri, affermano di sentirsi più sicure di sé e non hanno paura di prendere parola e far sentire la propria voce, anche in famiglia. Hanno più consapevolezza su come gestire situazioni o ostacoli quotidiani (particolarmente utili si sono rilevate le esercitazioni con la il corpo della Protezione Civile del campo). Manar, che a detta delle altre donne è anche una grande motivatrice, finisce ogni sessione formativa con la frase “You are the revolution”.

Sempre a Shatila incontriamo la squadre della Protezione Civile del campo. È un gruppo di giovani volontari e volontarie con una piccola sede in cui tengono l’attrezzatura per far fronte agli incendi e un piccolo ambulatorio per curare ustioni leggere. Il corpo di volontari è addestrato alla prevenzione dei crolli, per questo sanno riconoscere e intervenire in caso di pericolo di crollo delle abitazioni (problema diffuso nei campi). Sono inoltre addestrati a lavorare di notte, ma purtroppo non hanno mezzi adeguati. Per queste loro caratteristiche, sono spesso chiamati a sostenere le forze nazionali libanesi in una collaborazione che si fa sempre più intensa. Il gruppo, infatti, ha lavorato loro fianco anche a seguito dell’esplosione nel porto di Beirut nel 2020, dove ha contribuito a estrarre vive dalle macerie alcune persone. Hanno squadre addestrate a intervenire in situazioni di calamità naturale e sono pronti per partire all’estero, non appena riceveranno un riconoscimento internazionale. Ci tengono a sottolineare che non hanno affiliazione politica.

La nostra visita a Shatila si conclude con la proiezione del film 120 km di Waseem Khair, che ha partecipato alla XVIII edizione di Al Ard Film Festival. L’evento, organizzato grazie alla collaborazione con il Comitato delle Donne, è stato un esperimento ben riuscito che speriamo di ripetere. Il film, infatti, è il racconto del viaggio che Waseem e Osama, provenienti rispettivamente dalla Palestina del ’48 e dalla Cisgiordania, intraprendono per arrivare in Libano, ben consapevoli del divieto posto da Israele per i viaggi in Libano e delle conseguenze che li avrebbero attesi a loro ritorno.

Difatti, entrambi verranno arrestati dalle forze di sicurezza israeliane, ma Osama dovrà scontare più di un anno di detenzione amministrativa nelle carceri sioniste. È stata quindi una bella responsabilità proiettare un film a un pubblico di rifugiati, che parla della propria condizione, ma il risultato è stato più che positivo con una sala piena e i presenti concentrati e trasportati dal racconto.

Dalla nostra parte questa volta anche la corrente elettrica, che per tutta la durata del film (circa 30 minuti) ha deciso di non saltare.

La visita a Shatila è servita per rompere il ghiaccio e immergersi con tutti i sensi nella realtà della vita dei campi. È stato subito possibile percepire non solo la mancanza di spazi e privacy, ma anche gli odori e i rumori che incessantemente dominano la vita nel campo. Se, come si è detto tutti i campi, condividono le stesse problematiche, è vero che qualcuno è peggio degli altri e Shatila sta proprio in basso nella classifica. Alcuni affermano sia peggio di Gaza.

Affrontare gli altri campi, dunque, è stato più facile.

La giornata successiva continua nel sud del Libano, nei campi di Ein El Helwe e Burj El Shamali, intervallati da una visita al villaggio di Azze, dove la comunità locale, con il contributo di Sardegna Palestina è riuscita a realizzare un impianto fotovoltaico che alimenta un pozzo, fornendo di acqua potabile tutti gli abitanti del paese.

I campi del sud del Libano sono considerati zona militare, sia per la loro vicinanza alla Palestina occupata, sia per la forte presenza di formazioni politiche al loro interno. Per questo motivo, per entrare è necessario ricevere un permesso in anticipo e superare il checkpoint dell’esercito libanese. Ein El Helwe è stato la prima sede di Nuwat, aperta nel ’98. Li ritroviamo oggi in fase di programmazione delle le attività per l’anno scolastico 2022/23.

Il centro, particolarmente grande e attrezzato rispetto al precedente a Burj El Barajne, è provvisto di una palestra per donne e un grande giardino in cui i ragazzi passano il loro tempo libero fra le lezioni e in cui vengono svolte diverse attività ricreative.

Il giorno successivo la nostra visita, molti dei bambini torneranno a scuola. Il successo del nostro progetto nel campo di Ein El Helwe è tale che solo un bambino del gruppo dropout (abbandono scolastico) non è riuscito a tornare a scuola. Nuwat, però, cerca di rimanere in costante contatto con le scuole dell’UNRWA per capire come poter intervenire al meglio supportando i beneficiari, caso per caso.

Esistono diverse cause per cui i bambini non possono andare a scuola: alcuni non hanno documenti, alcuni non hanno i soldi e altri non possono permettersi gli spostamenti per raggiungere la scuola. L’UNRWA, che deve far fronte a una serie di ulteriori difficoltà emergenziali, non può permettersi di andare a recuperare i singoli studenti che abbandonano gli studi e il progetto “Istruzione contro povertà” si inserisce proprio in questo vuoto.

A Burj El Shamali, campo fuori dalle attività di progetto, conosciamo i volontari del Palestinian Youth Centre. Con i pochi mezzi a disposizione, cercano di organizzare attività per i bambini e coinvolgendo ragazzi dai 7 ai 13 anni, più una ventina di adolescenti. Questo campo è tra i più poveri e dimenticati del Paese e, come il caso di Shatila ma meno conosciuto, è stato teatro di un massacro nel 1982. A testimoniarlo, due mausolei e i nomi delle persone che vi hanno perso la vita.

Parlando anche con i volontari della clinica medica presente nel campo scopriamo che, oltre alle numerose difficoltà principalmente legate alla carenza di fondi e di mezzi per curare i pazienti, sembra esserci in quel campo una forte percentuale di malati di talassemia (circa 235 su 700 totali in Libano). Far fronte a questa condizione non è facile e non perché manchino le donazioni di sangue; tutt’altro. Piuttosto perché non ci sono le condizioni ottimali per conservare il sangue donato.

Il giorno successivo ci spostiamo verso nord. Il Centro Nuwat a Beddawi si trova accanto all’UNRWA, con cui collabora attivamente. Il successo del progetto in questo centro si può constatare nel fatto che almeno 15 su 36 dei beneficiari del programma per l’abbandono scolastico hanno ripreso ad andare a scuola. Anche questo centro è dotato di alcuni spazi esterni, molto utili per svolgere le attività estive e nel tempo libero.

Il campo di Beddawi è tra i più poveri del Libano. Si stima che attualmente vi abitino circa 40.000 persone, provenienti dalla distruzione di altri campi o a seguito di altre guerre (si pensi ai campi distrutti Tall El Zatar o Nabatieh)

Le richieste di partecipazione alle attività da parte dei ragazzi e delle ragazze sono tantissime ma, a causa degli spazi ridotti e delle risorse mancanti, purtroppo non è possibile venire incontro a tutti ed è stata creata una sorta di lista d’attesa per le persone rimaste fuori. Questo è dovuto al fatto che, oltra ai palestinesi, nel campo sono presenti in gran numero anche iracheni e siriani che spesso non riescono a frequentare le scuole dell’UNHCR perché prevedono il pagamento di una quota di iscrizione. Inoltre, visti i buoni risultati degli studenti del centro di Nuwat, molti dei genitori vorrebbero ritirare i propri figli dalle scuole dell’UNHCR e iscriverle al centro. Ma questo non è attualmente possibile.

Oltre al progetto “Istruzione contro povertà”, qui Nuwat porta avanti altri due progetti che mirano rispettivamente a creare consapevolezza circa i diritti dei rifugiati in Libano, come il lavoro, la casa, l’educazione. Molti dei rifugiati, infatti, non sanno quali possano essere i propri diritti basilari nel Paese; il secondo progetto si chiama “Le mille e una notte” e mira a stimolare la creatività e la fantasia dei bambini.

Abbiamo fatto visita all’associazione Al Shafa’ Al Tabiye, un’associazione medica che offre servizi sanitari in collaborazione con l’UNRWA. Formata interamente da volontari, funziona come una sorta di welfare locale. L’obiettivo è proprio quello di agire dove l’UNRWA non arriva, grazie alla collaborazione con altre realtà. Per esempio, riescono a trasferire i pazienti più gravi in altri ospedali e offrono un sostegno psicologico ai pazienti, operando anche casa per casa. Inoltre, in collaborazione con la Croce Rossa Libanese, si cerca di mantenere una banca del sangue per gli abitanti del campo.

L’incontro con i comitati popolari qui ci rivela che questi, per quanto formati dai principali partiti, preferiscono non operare in base all’affiliazione politica ma semplicemente per offrire servizi, che cercano di estendere anche ai gathering.

Proseguiamo nel campo di Nahr el Bared, che è stato distrutto nel 2007 da una guerra tra una fazione islamista che si era rifugiata nel campo e l’esercito libanese. Nel 2009 è iniziata la ricostruzione (eccezione nel panorama legislativo libanese) che sarebbe dovuta durare 3 anni, ma non è ancora stata completata. Difatti, se da un lato le autorità libanesi hanno riconosciuto la propria responsabilità nella distruzione del campo e ne hanno accordato la ricostruzione; da un lato questa viene volutamente ritardata in svariati modi, per esempio appellandosi al fatto che l’area in cui sorge il campo è un’area archeologica.

La maggior parte degli abitanti non è ancora tornata ancora nelle proprie case al campo. Questo ha comportato negli anni una crescita ulteriore della popolazione che dovrà trovare spazio nel perimetro assegnato (il campo è leggermente più grande rispetto al 1 km quadrato assegnato agli altri). Le difficoltà più grandi in questo caso vengono affrontate dalle persone che vivevano già prima nei gathering attorno al campo, che non vengono tenuti in considerazione nel progetto di ricostruzione.

Nonostante il campo sia ancora in fase di rifacimento, sono già presenti alcune associazioni che cercano di portare avanti i propri servizi per la comunità, tra queste il nostro partner Nuwat e Al Shafa’ Al Tabiye che, grazie a un progetto con la cooperazione tedesca, sta per trasferire i propri ambulatori in uno spazio più adeguato e moderno, dotato di un ascensore e alimentato con impianto fotovoltaico.

Anche Nahr el Bared è classificato come zona militare. Per questo, l’ingresso al campo è vincolato dal rilascio di un permesso da parte delle autorità libanesi ed è presidiato dall’esercito libanese.

Venerdì 16 partecipiamo alle commemorazioni del massacro di Sabra e Shatila. I discorsi retorici delle personalità politiche si scontrano con la voglia di giustizia che ancora oggi anima i parenti delle vittime.

Il rappresentante della municipalità di Ghobeiri, dove il campo sorge, annuncia per la prima volta in assoluto la costituzione di una associazione con lo scopo di acquistare l’area su cui sorge il memoriale del massacro. L’obiettivo è quello di poter garantire la giusta valorizzazione del luogo ed evitare che le vittime possano essere dimenticate, consegnandole a una degna memoria. La cosa più assurda è aver dovuto aspettare 40 anni per questo annuncio.

Arriviamo alla fine della missione e ci concediamo una veloce visita al centro città, che porta ancora i segni dell’esplosione del porto nell’agosto 2020. Guardando Beirut dal lato del porto, vediamo una serie di palazzi nuovi o in fase di ricostruzione, quasi a voler cancellare in fretta e furia le conseguenze dell’incuria e dell’incapacità della classe dirigente e salvare almeno la faccia(ta).

Ma appena ci spingiamo un po’ più verso l’interno il tempo sembra essersi fermato  alle 18.08 di quel 4 agosto di due anni fa. Il salotto buono della città è ancora devastato. Check point militari controllano l’accesso a quelle vie di negozi e ristoranti chiusi, il cui nome è spesso riconoscibile solo da qualche lettera appesa a ciò che resta dell’insegna luminosa. Stanno lì a guardia di quel pezzo di città, quasi ci fosse ancora altro da proteggere, oltre alla propria dignità.

Ci riesce sinceramente difficile immaginare in maniera positiva il futuro del Paese e il destino dei rifugiati che ospita.

Ripartiamo così, come siamo arrivati, in piena notte, guardando Beirut che dorme. Questa volta ci lasciamo il buio alle spalle e veniamo accecati dalle luci dell’aeroporto affollato alle prime ore del mattino. Ed è così che speriamo di trovarti la prossima volta, cara Beirut, luminosa, viva  e chiassosa come ancora continua a essere il tuo aeroporto e che la giustizia, che tanto reclami di fronte al tuo porto, possa davvero essere estesa a tutte le persone che in te hanno trovato una casa, seppur temporanea.