Materiali

Indice

1. Comunicato del Fronte popolare e del Fronte democratico per la liberazione della Palestina, (12/06).

2. La notte della Palestina, di Ali Rashid, il Manifesto (14/06).

3. Un’intera nazione prigioniera di Israele, di John Pilger, il Manifesto (14/06).

4. L’ultima chance: sciogliere l’Autorità nazionale palestinese, di Michele Giorgio, il Manifesto (14/06)

5. Noi non saremo “amici” di alcuna gestione dittatoriale del potere in Palestina, Associazione di amicizia italo-palestinese, (15/06).

6. Le colpe palestinesi. E quelle di Usa e Ue. Intervista a Leila Shahid, di Gelardina Colotti, il Manifesto (15/06).

7. Palestina, come realizzare un colpo di stato, di Michelguglielmo Torri, (15/06).

8. Le ipoteche sulla Palestina. Comunicato del Forumpalestina, (15/06).

9. Le forze progressiste palestinesi sono chiamate a riprendere in mano la situazione, di Bassam Saleh.

10. Comunicato di Marwan Barghouti (Al Fatah), (18/06)

1. Comunicato del Fronte popolare e del Fronte democratico per la liberazione della Palestina

Ufficio stampa – Pflp
12/7/2007 Gaza

Continua lo scorrere del sangue palestinese a mano di palestinesi dove sta lasciando forti perdite di vite umane e danni materiali , sono cadute decine di cittadini a causa dello scontro hamas-fatah

Vogliamo rinnovare l’invito alle due fazioni di essere all’altezza della responsabilita’ politica nei confronti la nostra causa nazionale,e di rispondere positivamente agli sforzi di mediazione delle forze patriottiche palestinesi e della mediazione egiziana,per porre fine a questo bagno di sanque .

Chiediamo l’immediato cessate il fuoco ed iniziare subito a trovare i meccanismi per ritirare i militanti dalle strade e dalle strutture pubbliche , e il rilascio immediato dei rapiti.

E’ ora di iniziare un dialogo interpalestinese che da precedenza all’unita’ della resistenza nel affrontare il nemico e l’occupazione, ad un programma politico partecipato da tutti e lontano dalla logica di quote di potere che ci ha condotto ad un precipizio.

Vogliamo confermare il nostro impegno con tutte le forze , le personalita’ ,e la societa’ civile , per porre fine a questo dramma e trovare uno sbocco alla situazione attuale.

Vogliamo rinnovare l’invito al nostro popolo e le sue forze politiche di alzare la voce e moltiplicare gli sforzi , e di scendere in piazza per fermare gli scontri che hanno causato e causano forti danni alla nostra causa.

2. La Notte della Palestina

Ali Rashid, il Manifesto (14/06)

Forse una speranza, ho pensato ieri quando la gente di Gaza è scesa in piazza contro la guerra fratricida. Poi Al Jazeera ha mostrato il corteo bersagliato da entrambi i contendenti, e sono cadute le prime vittime. Si può ripartire solo da questo coraggio, da chi non si è fatto intimidire da armi, calci e sputi. Ora c’è solo rabbia, vergogna, stupore. I due contendenti in armi non rappresentano più il disagio e le aspirazioni palestinesi. È lotta per il potere, in assenza di potere, sulle macerie della Palestina ancora sotto l’occupazione israeliana che dura da sessant’anni. Tornano in mente le parole di Frantz Fanon nella Rivoluzione tradita: «In mancanza di un progetto politico e culturale alternativo si riproduce la dimensione del nemico occupante». Così azzerano anni di lotta drammatica, ma anche di riscatto politico, umano e culturale. Le parti che si fronteggiano, nel metodo e nel contenuto, sembrano estranei a questa storia.
Ma perché questa trasformazione dopo la vittoria elettorale di Hamas. Perché hanno sconvolto un popolo che aveva fatto, comunque, la sua scelta? La risposta sta nel meccanismo democratico inceppato che non ha permesso a chi ha vinto le elezioni di esercitare il suo diritto-dovere di governare. I responsabili sono troppi: innanzitutto la stessa Al Fatah e il presidente Abu Mazen che, insieme ad Israele e alla Comunità internazionale, ha frapposto mille ostacoli tra Hamas e la possibilità di governare. Il resto lo hanno fatto l’isolamento politico, l’embargo economico, le uccisioni mirate, le incursioni militari quotidiane, gli arresti dei membri del governo e del Parlamento, il Muro, i nuovi insediamenti. Israele e gli Stati uniti – il rapporto dell’inviato dell’Onu Alvaro de Soto parla di effetto «devastante» per «l’appoggio incondizionato dato dalla Casa bianca ad Israele» – hanno imposto un assedio finanziario, minacciando le banche internazionali, impedendo l’arrivo di fondi raccolti nel mondo per la popolazione alla fame.
È così cresciuto un caos non calmo, con una deriva malavitosa. E l’ultimo accordo della Mecca tra Hamas e Fatah che aveva posto fine agli scontri precedenti dando vita al governo di unità nazionale accolto con gioia nei Territori, non ha modificato né l’intransigenza d’Israele, né le condizioni materiali dei palestinesi. L’embargo e l’isolamento internazionale continuano. Altri ministri e parlamentari sono stati rapiti e rinchiusi nelle carceri israeliane. L’accordo della Mecca prevedeva l’allontanamento di tutti i falchi responsabili degli scontri. Hamas ha allontanato i propri – quelli che oggi guidano la protesta e la cui ferocia in queste ore è scellerata – ma Abu Mazen ha confermato e promosso l’eminenza grigia Dahlan. E le forze dell’ordine hanno continuato a rifiutare gli ordini del ministro degli interni, costringendolo alle dimissioni. Infine le dichiarazioni di Israele e di Bush, sulle intenzioni di sostenere con armi e denaro le forze dell’ordine alle dipendenze di Abu Mazen in funzione anti-Hamas, hanno aperto la voragine dei sospetti. Oggi «allegramente» Israele sostiene che è la divisione dei palestinesi ad impedire la ripresa delle trattative. In verità Israele, che non trattava neanche quando l’interlocutore c’era, non tratta perché è contro una soluzione politica che ponga fine alla sua occupazione sulla Palestina.
I palestinesi si uccidono e suicidano il sogno della terra più amata. Ma il mondo occidentale, Europa compresa, che sta a guardare è il vero responsabile. La sua guerra e le sue false promesse hanno riaperto per sempre la ferita del Medio Oriente.

3. Un’intera nazione prigioniera di Israele

di John Pilger

su Il Manifesto del 14/06/2007

L’uso selettivo della lingua da parte dei media e la censura per omissione del giornalismo occidentale coprono la scientifica violenza israeliana Gaza deve (dovrebbe) essere mostrata per quello che è: un laboratorio israeliano, sostenuto dalla comunità internazionale, dove gli essere umani vengono usati come conigli per testare le pratiche più perverse di soffocamento economico e riduzione alla fame

Si sta consentendo a Israele di distruggere la nozione stessa di Stato palestinese e di tenere prigioniera un’intera nazione. Questo appare in modo evidente dagli ultimi attacchi su Gaza, la cui sofferenza è diventata una metafora della tragedia imposta ai popoli in Medio Oriente ed oltre. Secondo il notiziario britannico Channel 4 News, questi attacchi «erano mirati contro importanti militanti di Hamas» e contro «l’infrastruttura di Hamas». La Bbc ha parlato di uno «scontro» tra gli stessi militanti e gli F-16 israeliani.
Consideriamo uno di questi scontri. L’automobile dei militanti è stata fatta esplodere da un missile partito da un cacciabombardiere. Chi erano questi militanti? Secondo la mia esperienza, tutti gli abitanti di Gaza sono militanti in quanto resistono al loro carceriere e aguzzino. Quanto alla «infrastruttura di Hamas», si trattava della sede del partito che ha vinto le elezioni democratiche dell’anno scorso in Palestina.
Dire questo darebbe una cattiva impressione. Suggerirebbe che le persone a bordo dell’automobile e tutti gli altri nel corso degli anni, i bambini e gli anziani che si sono anche loro «scontrati» con i cacciabombardieri, sono stati vittima di una mostruosa ingiustizia. Suggerirebbe la verità.
«Secondo alcuni». ha detto il reporter di Channel 4, «Hamas ha sollecitato questo …». Forse si riferiva ai razzi sparati contro Israele dall’interno della prigione di Gaza, che non hanno ucciso nessuno. Secondo il diritto internazionale, una popolazione occupata ha il diritto di usare le armi contro le forze di occupazione, ma questo diritto non viene mai citato. Il giornalista di Channel 4 ha fatto riferimento a una «guerra infinita». Non c’è nessuna guerra. C’è la resistenza della popolazione più povera, più vulnerabile sulla terra a una perdurante occupazione illegale imposta dalla quarta più grande potenza militare al mondo, le cui armi di distruzione di massa vanno dalle bombe cluster ai congegni termonucleari, pagate dalla superpotenza \. Soltanto negli ultimi sei anni, ha scritto lo storico Ilan Pappé, «le forze israeliane hanno ucciso più di 4.000 palestinesi, la metà dei quali bambini».
Consideriamo come funziona questa potenza. Secondo i documenti ottenuti da United Press International, una volta gli israeliani finanziavano segretamente Hamas come «tentativo diretto di dividere e annacquare il consenso a un’Olp forte e laica utilizzando un’alternativa religiosa rivale», come ha detto un ex funzionario della Cia.
Oggi Israele e gli Usa hanno capovolto il loro intervento e sostengono apertamente il rivale di Hamas, Fatah, con mazzette di milioni di dollari. Di recente Israele ha segretamente autorizzato 500 combattenti di Fatah a entrare a Gaza dall’Egitto, dove erano stati addestrati da un altro protetto degli americani, la dittatura del Cairo. Scopo di Israele è indebolire il governo palestinese eletto e fomentare una guerra civile. Per tutta risposta, i palestinesi hanno creato un governo di unità nazionale, con Hamas e Fatah. È questo che gli ultimi attacchi mirano a distruggere.
Con Gaza rinchiusa nel caos e la Cisgiordania cinta da un muro, il piano israeliano, ha scritto l’accademica palestinese Karma Nabulsi, è «una visione hobbesiana di una società anarchica: monca, violenta, impotente, distrutta, intimidita, governata da milizie, bande, estremisti e ideologi religiosi i più disparati, divisa dal tribalismo etnico e religioso e dai collaborazionisti cooptati. Guardate l’Iraq di oggi…».
Il 19 maggio, il Guardian ha ricevuto questa lettera da Omar Jabary al-Sarafeh, un abitante di Ramallah. «La terra, l’acqua e l’aria sono sotto costante osservazione da parte di un sofisticato sistema di sorveglianza militare… La striscia di Gaza deve \ essere mostrata per ciò che è… un laboratorio israeliano sostenuto dalla comunità internazionale dove gli esseri umani vengono usati come conigli per testare le pratiche più drammatiche e perverse di soffocamento economico e di riduzione alla fame».
Il giornalista israeliano Gideon Levy ha descritto la fame che colpisce gli abitanti di Gaza, più di un milione e 250 mila persone, e le «migliaia di persone ferite, rese disabili e scioccate dalle bombe, che non possono ricevere alcuna assistenza… Ombre di esseri umani vagano tra le rovine… Sanno solo che tornerà, e sanno cosa significherà questo per loro: più prigionia nelle loro case per settimane, più morte e distruzione in proporzioni mostruose».
Ogni volta che sono stato a Gaza, sono stato consumato da questa malinconia, come se fossi penetrato in un segreto luogo di cordoglio. Le scritte sui muri forati dai proiettili commemorano i morti, come la famiglia di 18 uomini, donne e bambini che «si sono scontrati» con una bomba israelo-americana da 500 libbre, lanciata sulla loro casa mentre dormivano. Militanti, si presume.
Più del 40% della popolazione di Gaza è formato da bambini sotto i 15 anni. Dando conto di uno studio sul campo per il British Medical Journal effettuato per 4 anni nella Palestina occupata, il dottor Derek Summerfield ha scritto che «due terzi dei 621 bambini uccisi ai check-point, per strada, mentre andavano a scuola, nelle loro case, sono morti per piccole armi da fuoco che li hanno colpiti in più della metà dei casi alla testa, al collo e al petto: la ferita del cecchino». Un mio amico che lavora all’Onu li chiama «figli della polvere». La loro stupenda infantilità, la loro chiassosità, le loro risate, il loro incanto, tradiscono il loro incubo.
Ho incontrato il dottor Khalid Dahlan, uno psichiatra che dirige uno di svariati progetti di salute infantile sul territorio a Gaza. Dahlan mi ha parlato della sua ultima ricerca. «La statistica che personalmente trovo insopportabile» ha detto «è che il 99.4% dei bambini che abbiamo preso in esame soffrono per un trauma. Se si guardano i tassi di esposizione al trauma, si capisce il perché: il 99.2% del gruppo di studio ha avuto la casa bombardata; il 97.5% è stato esposto ai gas lacrimogeni; il 96.6% ha assistito a sparatorie; il 95.8% ha assistito a bombardamenti e funerali; quasi un quarto ha visto dei componenti della propria famiglia feriti o morti».
Dahlan spiega che bambini di soli tre anni hanno vissuto la dicotomia causata dal doversi misurare con simili condizioni. Essi sognavano di diventare medici e infermieri, poi tutto questo è stato travolto da una visione apocalittica di se stessi come la prossima generazione di attentatori suicidi. Ciò invariabilmente dopo un attacco israeliano. Per alcuni ragazzini gli eroi non erano più i calciatori, ma una confusione di «martiri» palestinesi e persino il nemico, «perché i soldati israeliani sono i più forti e hanno gli elicotteri Apache».
Poco prima di morire, Edward Said rimproverò amaramente i giornalisti stranieri per quello che giudicava il loro ruolo distruttivo nel «cancellare il contesto della violenza palestinese, la risposta di un popolo disperato e orribilmente oppresso, e la terribile sofferenza da cui essa scaturisce». Proprio come l’invasione dell’Iraq è stata una «guerra di media», altrettanto può dirsi del «conflitto» grottescamente unidirezionale che è in corso in Palestina. Come dimostra il lavoro pionieristico del Media Group dell’università di Glasgow, agli spettatori televisivi viene detto raramente che i palestinesi sono vittima di una occupazione militare illegale; il termine «territori occupati» è spiegato di rado. Solo il 9% dei giovani intervistati nel Regno unito sa che gli israeliani sono la forza di occupazione e i coloni illegali sono gli ebrei; molti credono che siano i palestinesi. L’uso selettivo della lingua da parte delle emittenti radiotelevisive è cruciale nel mantenere questa confusione e ignoranza. Parole come «terrorismo», «omicidio» e «uccisione selvaggia, a sangue freddo» descrivono la morte degli israeliani, quasi mai quella dei palestinesi.
Ci sono eccezioni lodevoli. L’inviato della Bbc rapito, Alan Johnston, è una di esse. Eppure, nella valanga di notizie sul suo rapimento, non si citano mai le migliaia di palestinesi rapiti da Israele, molti dei quali non rivedranno le loro famiglie per anni. Per loro non ci sono appelli. A Gerusalemme, l’Associazione stampa estera documenta come i suoi membri siano sottoposti al fuoco e alle intimidazioni da parte dei soldati israeliani. In un periodo di 8 mesi altrettanti giornalisti, compreso il responsabile della Cnn a Gerusalemme, sono stati feriti dagli israeliani, alcuni di loro gravemente. In ciascun caso l’Associazione stampa estera ha protestato. In ciascun caso, non c’è stata una risposta soddisfacente.
Una censura per omissione attraversa profondamente il giornalismo occidentale su Israele, specialmente negli Usa. Hamas è liquidata come «un gruppo terroristico votato alla distruzione di Israele», che «rifiuta di riconoscere Israele e vuole combattere, non dialogare». Questo discorso sopprime la verità: il fatto che Israele sta distruggendo la Palestina. Inoltre le proposte di Hamas, avanzate da tempo, di un «cessate il fuoco» di 10 anni vengono ignorate, insieme a un recente, promettente spostamento ideologico al suo interno, che vede una accettazione storica della sovranità di Israele. «La carta non è il Corano», ha detto uno di Hamas, Mohammed Ghazal. «Storicamente crediamo che tutta la Palestina appartenga ai palestinesi, ma ora stiamo parlando della realtà, delle soluzioni politiche».
L’ultima volta che ho visto Gaza, mentre mi recavo in auto verso il check-point israeliano con il filo spinato, ho potuto assistere allo spettacolo di bandiere palestinesi che sventolavano dall’interno dei compound recintati. Erano stati i bambini, mi spiegavano. Fabbricano le aste con delle bacchette legate insieme, e uno o due di loro si arrampicano in cima a un muro tenendo la bandiera in silenzio. Lo fanno quando ci sono degli stranieri in giro, e pensano che potranno dirlo al mondo.

Traduzione Marina Impallomeni

4. L’ultima chance: sciogliere l’Autorità nazionale palestinese

(14/06)

Michele Giorgio

La fine dell’Autorità nazionale palestinese è stata invocata in questi ultimi giorni da esponenti politici ed intellettuali, tra cui il professor Ali Jirbawi dell’università di Bir Zeit, come unico percorso per far uscire Fatah e Hamas dal tunnel della guerra fratricida esplosa per un potere virtuale, fatto di qualche ministero e un po’ di bandiere che sventolano sugli edifici pubblici. Perché lasciar continuare una amministrazione che non ha sovranità e che sotto le sembianze dell’autogoverno maschera inconsapevolmente proprio l’occupazione israeliana? E’ questo l’interrogativo che si è posto più volte Jirbawi e con lui tanti altri palestinesi che vorrebbero passare la patata bollente nelle mani dell’occupante e non offrirgli più alibi mantenendo in vita un organismo paralizzato e agonizzante.
Altri interrogativi sorgono riguardo i motivi che hanno portato quelli di Hamas e Fatah ad ammazzarsi tra di loro nella «prigione» di Gaza. L’elenco è lungo ma basta tornare al 26 gennaio 2006 per trovare sufficienti spiegazioni. Il giorno dopo le elezioni legislative vinte da Hamas in modo schiacciante, Abu Mazen e gli altri leader di Fatah non hanno analizzato con serietà, come sperava la base dei militanti, la sconfitta subita e non hanno avviato un processo di profondo rinnovamento finalizzato a riportare democraticamente al potere un partito che è stato travolto dagli scandali e dal fallimento del processo di pace con Israele. Niente congresso, niente dibattito interno, solo cooptazione degli attivisti ribelli ma sensibili al fascino del potere. Fatah ha pensato solo a fornire il suo contributo all’isolamento e al boicottaggio di Hamas e del suo governo. Ha lavorato per creare le condizioni per la caduta dell’amministrazione islamica appena nata.
E’ però più corretto dire che non tutto Fatah ma una sua parte ben precisa si è schierata con il progetto Usa-Ue-Israele volto a rendere impossibile la vita all’Anp controllata da Hamas. E’ indubbiamente ripetitivo fare riferimento a Mohammed Dahlan eppure non si può non notare il nome dell’ex capo della sicurezza preventiva ed ex ministro, sulla lista di quei dirigenti palestinesi convinti che Fatah dovrà impedire con ogni mezzo ad Hamas di restare al potere. Un atteggiamento che ha generato proteste nel partito, tra quei leader, come Ahmed Helles, persuasi che i problemi centrali per i palestinesi siano oggi come quarant’anni fa l’occupazione e l’assedio di Gaza che non è cessato dopo il ritiro israeliano di due anni fa. La corrente guidata da Dahlan, ben finanziata e sostenuta dall’estero, non si è fermata neppure dopo la formazione del governo di unità nazionale mentre anche Abu Mazen dava il suo contributo all’inizio della guerra civile nominando Dahlan suo vice al Consiglio per la sicurezza nazionale e confermando Rashid Abu Shabak a capo della sicurezza preventiva. Per Hamas due pugni allo stomaco.
Il movimento islamico comunque ha le sue responsabilità. I suoi miliziani si stanno macchiando di crimini gravissimi a Gaza contro altri palestiensi, contro agenti che sono entrati nei servizi di sicurezza solo per garantirsi uno stipendio (appena 300 dollari). Più di tutto, Hamas non ha capito come funziona la globalizzazione. Vinte le elezioni i suoi leader hanno ingenuamente creduto che la «solidarietà islamica» avrebbe sostituito l’aiuto occidentale ai palestinesi. Invece si sono dovuti rendere conto che i grandi imprenditori musulmani e le banche, comprese quelle rigidamente islamiche, sono solidali solo con i capitalisti occidentali e che ai palestinesi non trasferiranno un dollaro se a volerlo non saranno anche gli Stati uniti.

5. Noi non saremo “Amici” di alcuna gestione dittatoriale del potere in Palestina!

Comunicato dell’Associazione di amicizia italo-palestinese onlus (Firenze) sugli ultimi avvenimenti in Palestina

Firenze 15.06.2007

Non possiamo dimenticare che l’occupazione israeliana dei Territori è ancora in atto; che non sono cessate le esecuzioni extragiudiziarie, gli arresti, gli espropri, la pulizia etnica portate a termine dalle forze armate israeliane, dai suoi gruppi speciali di intervento e dai coloni ortodossi, integralisti e xenofobi.

Sappiamo che il boicottaggio internazionale nei confronti del legittimo governo palestinese e di tutte le istituzioni locali, connesse eventualmente con il partito di Hamas, prosegue ininterrotto.

Osserviamo che ciò che è stato considerato immorale, incivile, se rivolto contro il popolo di Israele, diviene invece opportuno, morale, giusto , quando applicato contro il popolo palestinese.

Riteniamo che queste siano le cause prime della tragedia che in questi giorni sta lacerando la Palestina, della profonda ferita che violenta il corpo del suo popolo e diffonde il cancro dell’odio e della diffidenza nel tessuto sociale e politico dei suoi figli.

Quanto sta accadendo in queste ore nella Striscia di Gaza e nel West Bank, anche se ci addolora profondamente, non ci meraviglia.

Da tempo, gli USA, il Quartetto, l’UE, Israele hanno sostenuto, in modo plateale e talvolta occulto, personaggi politici palestinesi corrotti e compromessi, inadeguati alle necessità e alle situazioni, screditati irrimediabilmente agli occhi del popolo, propensi sempre e solo a rafforzare il loro potere personale in qualsiasi modo, anche sottostando al compromesso di supportare gli interessi di Israele.

Tutti hanno chiuso volutamente gli occhi di fronte alle scelte democratiche fatte dal popolo palestinese, che, con il voto di gennaio 2006, ha rifiutato di appoggiare oligarchie personali politiche o economiche legate al precedente governo.

Tutti hanno girato la testa di fronte all’evidenza che la scelta a favore di Hamas non era determinata da sentimenti integralisti e violenti, dato che in moltissimi casi essa esprimeva la scelta di ampi strati di una popolazione cristiana o che proveniva da aree precedentemente controllate da Al-Fatah.

Riconfermando il sostegno politico, economico e militare alle forze screditate del partito degli Abu Mazen, dei Mohammed Dahlan, degli Abu Ala…., i paesi “democratici” hanno rinnovato un atteggiamento coloniale nella imposizione della “democrazia”.

Infatti, a loro avviso, il nuovo governo avrebbe dovuto trascurare completamente le indicazioni espresse dal popolo attraverso il voto – come si usa fare ormai nei paesi a democrazia matura – per conformarsi esclusivamente alle pretese israeliane e statunitensi.

Il mondo delle nazioni “democratiche” ha approfittato della miseria, della fame, delle malattie, della disperazione e del terrore di un popolo continuamente soggetto alla violenza dell’aggressione militare israeliana, per corromperne la dignità, l’umanità, il senso di giustizia e di appartenenza ad un’unica nazione palestinese e gettarlo nel pozzo senza fondo dello scontro fratricida, della faida e della vendetta tra gruppi di potere ormai scissi dal cordone ombelicali che li univa alla stessa madre Palestina.

In nome di tutto ciò, noi non potremo essere “Amici” di chi, facendosi scudo di un’organizzazione qual è l’OLP, che alla luce delle elezioni del gennaio 2006 non può più essere considerata rappresentativa di tutto il popolo palestinese in lotta per la propria “liberazione”, azzera con un colpo di spugna l’abbozzo di esperienza di un governo di “unità nazionale” appena costituito, dichiarandolo decaduto, ed impone uno stato di emergenza al fine di reprimere con forza gli avversari politici.

Le decisioni adottate forniranno infatti ad Abu Mazen e a Mohammed Dahlan la gestione di un potere pressochè assoluto che dovrebbe durare fino al lontano momento in cui sarà possibile indire finalmente nuove elezioni che diano però garanzia di ravvedimento da parte del popolo palestinese:

il nuovo governo non potrà essere costituito che da marionette che siano disponibili ad accettare il compito di imporre il volere degli USA, dell’UE, del quartetto e, specialmente, di Israele, in quella minima porzione di Territorio che conserverà ancora il nome di Palestina.

6. Le colpe palestinesi. E quelle di Usa e Ue.

di Geraldina Colotti

su Il Manifesto del 15/06/2007

Leila Shahid, rappresentante dell’Olp in Europa, ci parla della tragedia che sta insanguinando Gaza e cancellando le speranze di uno stato della Palestina

Con Leila Shahid, ambasciatrice palestinese in Europa parliamo della tragedia della Palestina.

A Gaza continuano gli scontri…

Quel che succede è molto grave, non si tratta solo di uno scontro in più. L’offensiva di Hamas distruggerà il governo di unità nazionale,forse il presidente Abu Mazen opterà per un governo di emergenza che metta di fronte alle loro responsabilità sia Hamas che una comunità internazionale colpevole di aver lasciato marcire la situazione. Hamas era stato eletto in mododemocratico e trasparente, ma quel risultato elettorale è stato respinto sia dagli Usa che dall’Unione europea, e la situazione ha covato il dramma: privata del diritto di decidere, la popolazione è stata messa all’angolo, ricacciata verso spinte radicali. Ismail Hanyeh è stato un uomo pragmatico, anche se nel suo partito vi erano forze più radicali contrarie al suo governo, e la cecità della comunità internazionale le ha favorite. Israele ha preteso di negoziare con Abu Mazen, ma senza portare risultati concreti per la vita delle persone, contribuendo anzi a indebolire il presidente. Per i palestinesi questa è forse la situazione più grave in 40 anni di occupazione: due terzi della popolazione vive sotto la soglia della povertà, con meno di 2 dollari al giorno, la disoccupazione nella Striscia di Gaza arriva al 70%, in Cisgiordania al 60%. Sul territorio ci sono oltre 500 barriere e check point. Il muro divide i palestinesi da altri palestinesi. L’assenza di circolazione di persone, capitali e merci è totale. La popolazione civile non aveva più i mezzi per resistere all’esplosione di violenza: che è responsabilità palestinese, ma soprattutto è dovuta all’occupazione, all’interesse specifico degli Usa, e all’atteggiamento della comunità internazionale. L’unione europea, sebbene contraria a una soluzione militare, ha sbagliato a boicottare il governo e a sospenderegli aiuti diretti: così ha punito la popolazione civile, che viveva solo di quegli aiuti.

E quali sono le responsabilità da parte palestinese?

Riguardano sia Hamas che Fatah. Hamas, sorpreso dall’ampiezza del successo elettorale, non era pronto ad assumere il potere. Doveva sapere che, persistendo nel rifiuto di riconoscere Israele e continuando a propugnare la lotta armata, per l’Unione europea – principale finanziatore di servizi sociali e assistenza economica -, non sarebbe stato un interlocutore. Anche con Arafat l’aiuto europeo era subordinato a un’intesa sull’esistenza di due stati. Neanche Fatah, d’altronde, aveva previsto un voto di sfiducia di così grandi proporzioni. Persino regioni cristiane hanno votato Hamas. Alcune componenti di Fatah, però, hanno voluto risolvere la questione con la forza, rifiutando ogni proposta, procrastinando la formazione di un governo di coalizione, boicottando Hamas con un atteggiamento antidemocratico. Certo, sia nel campo di Hamas che in quello di Fatah ci sono forze interessate a far cadere il governo di coalizione. Certo, le correnti di Hamas ricevono armi dai loro alleati, ma le armi nelle mani di Fatah, da chi vengono? Usa e Israele permettono l’arrivo di armi a tutte le parti.

Come vede le cose dal suo osservatorio europeo?

Il programma del governo di coalizione nazionale, che ha incluso Hamas, Fatah e gli indipendenti, era simile a quello di Fatah. L’Ue avrebbe potuto negoziare con la corrente più pragmatica di Hamas, invece ha spinto la popolazione alla guerra civile, avallando la strategia degli Usa nella regione: dall’Iraq alla Palestina, passando per il Libano, favorire guerre civili per giustificare la propria presenza militare in Medioriente. Ma oggi, al parlamento europeo c’è una maggiore consapevolezza del fallimento delle sanzioni. Tutti i gruppi di sinistra hanno chiesto di ristabilire le relazioni dirette col governo di coalizione.

Lei è stata con Arafat dal ’69. Non crede che il vuoto lasciato dal rais sia parte di questa crisi?

Il vuoto si è determinato quando il mondo ha rifiutato di riconoscere il risultato di 3 elezioni, organizzate dopo la morte di Arafat, esemplari per maturità democratica e pluralismo. Quando ha trasformato la volontà di un ricambio democratico in caos e guerra civile.

Ma non c’è anche una crisi politica e morale di Fatah?

Il fallimento elettorale di Fatah è legato a quello del processo di pace. Nel ’93, Fatah ha presentato gli accordi di Oslo come la soluzione dell’occupazione militare, ha promesso uno stato palestinese per il ’99, deludendo e facendo infuriare la popolazione. Poi ha rinviato troppo il processo di rinnovamento. L’ultimo congresso è dell’89: da 18 anni non c’era vita democratica nel partito, e tantomeno quindi in una gestione di governo. Più della corruzione, è stata l’assenza di democrazia a deludere i cittadini. Il loro è stato un voto di protesta, che hanno pagato caro.

Bisogna sciogliere l’Anp?

Sarebbe irresponsabile. Anche se è molto indebolita e confrontata alla crisi più grave dalla sua fondazione, l’Anp è frutto di un lungo percorso storico-politico del movimento nazionale palestinese: ci sono voluti 59 anni per costruirla. Piuttosto, occorre un’assunzione di responsabilità. Magari, si può pensare all’invio di una forza internazionale (non di interposizione), che protegga la popolazione civile. Per adesso, la crisi non è ancora irreversibile.


7. Palestina: come realizzare un colpo di stato

di Michelguglielmo Torri
15-06

Fonte: infopal.it

L’accordo della Mecca dell’8 febbraio, mediato dai Sauditi, che avrebbe dovuto stabilizzare la situazione nei territori occupati attraverso la creazione di un governo di unità nazionale, è fallito. Con l’inevitabilità di una tragedia greca, il popolo palestinese è sprofondato nella guerra civile. Come è potuto succedere?

Tendenzialmente, i commentatori si sono soffermati su quelle che categorizzano come l’«irragionevolezza» o la «follia» dei palestinesi e, con pochissime eccezioni, hanno evitato di prendere in considerazione il contesto internazionale e storico. Se lo avessero fatto, difficilmente avrebbero potuto tralasciare di prendere come punto di partenza dei tragici eventi di questi giorni le decisioni prese dagli USA e da Israele subito dopo la vittoria riportata da Hamas nelle elezioni del gennaio 2006. In quell’occasione gli USA, con l’appoggio degli europei, diedero l’avvio al blocco economico dei territori palestinesi; lo fecero prendendo come pretesto il rifiuto da parte di Hamas di precondizioni per una trattativa che un alto funzionario dell’ONU, Alvaro de Soto, in un rapporto che avrebbe dovuto rimanere confidenziale, doveva poi definire «non ottenibili (unachievable)». Fin dal principio fu chiaro che il fine del boicottaggio era la creazione di una situazione talmente catastrofica da spingere i palestinesi a rivoltarsi contro quello stesso governo di Hamas da loro democraticamente eletto solo poco prima. Insomma, come argomentato dallo studioso americano Augustus Richard Norton, si trattava di realizzare un colpo di stato «soft».

In effetti, il blocco economico imposto dagli USA e il mancato versamento da parte di Israele dei proventi di una serie di imposte e di tariffe doganali, riscosse dallo stato ebraico secondo il dettato dell’accordo di Oslo, ma dovute all’ANP, hanno determinato una vera e propria catastrofe umanitaria nei territori occupati (largamente sottaciuta dai media occidentali). Tuttavia, contrariamente agli auspici americani, la rivolta popolare contro Hamas non c’è stata.

Il mantenimento del blocco economico, tuttavia, ha avuto un effetto politico importante, determinando il fallimento della mediazione saudita. Quest’ultima, per portare a risultati concreti e permanenti, avrebbe dovuto comportare l’invio di cospicui aiuti economici alla popolazione dei territori occupati. Tali aiuti, in effetti, erano stati previsti – e in modo generoso – dai Sauditi. Il problema è che la continuazione del blocco economico dei territori occupati ha impedito l’afflusso degli aiuti: mentre la situazione sul terreno si faceva sempre più drammatica, i palestinesi hanno continuato a sprofondare nell’indigenza e perfino nella fame, nelle loro gabbie a cielo aperto a Gaza e nella Cisgiordania.

La politica di affamare i palestinesi per determinare il crollo di popolarità di Hamas è stata fatta alla luce del sole. Recentemente, però – anche se al di fuori dei grandi organi di stampa e delle principali reti televisive – hanno incominciato a circolare notizie e analisi che rivelavano come ridurre la popolazione palestinese alla fame fosse solo una parte del piano di destabilizzazione, messo in atto sotto la regia americana. In particolare, il 30 aprile, il settimanale giordano «Al-Majd» ha pubblicato un servizio su un documento intitolato Action Plan for the Palestinian Presidency, documento finalizzato ad abbattere il governo di unità nazionale palestinese nato dalla mediazione saudita.

A detta di «Al-Majd» – un settimanale con una tradizione di giornalismo indipendente, che, già in passato, gli ha procurato problemi con le autorità – l’Action Plan era stato ottenuto da una fonte interna ai servizi segreti giordani. Il presidente dell’Associazione della stampa giordana, parlando a nome del governo di Amman, si è affrettato a smentire i contenuti del documento, dichiarandoli «totalmente falsi». Contemporaneamente, però, ha fatto l’ammissione alquanto compromettente che, già in passato, «Al-Majd» aveva «ripetutamente danneggiato la sicurezza e gli interessi del paese», pubblicando rapporti «basati su informazioni prese da fonti dell’intelligence». Ciò che, di fatto, confermava la credibilità di un documento le cui affermazioni erano state anticipate da altre fonti.

Secondo il testo del documento diffuso da «Al-Majd», il deterioramento della situazione economica nei territori occupati avrebbe dovuto portare alla decisione del presidente dell’ANP, Mahmoud Abbas, di sciogliere il parlamento palestinese e di indire nuove elezioni. In considerazione però del fatto che Hamas – blocco economico o no – continuava a disporre non solo della maggioranza parlamentare, ma anche dell’appoggio della maggioranza della popolazione, una decisione del genere – ingiustificabile dal punto di vista legale – non avrebbe avuto nessuna possibilità di ottenere l’obbedienza di Hamas. Perché il progetto potesse realizzarsi era quindi necessario che il governo palestinese fosse rimosso con la forza delle armi, nel corso di un vero e proprio colpo di stato. Una soluzione, questa, che, secondo fonti riportate da «Conflictsforum», era stata prevista e poi fortemente voluta da un alto esponente dell’Amministrazione Bush fin dal febbraio 2006.

Il piano in questione, in effetti, era stato ideato da Elliott Abrams, oggi uno dei personaggi più potenti dell’Amministrazione Bush. Abrams aveva già servito sotto la presidenza Reagan, diventandone la longa manus in tutte le attività sovversive allora messe in atto dagli USA in Centro America ed era finito nei guai per aver mentito al Congresso. Da allora ai margini del potere, Abrams era stato rimesso in pista da George W. Bush che, all’inizio del suo secondo mandato, lo aveva promosso a «vice consigliere per la sicurezza nationale incaricato della strategia per la democrazia globale» (Deputy National Security Advisor for Global Democracy Strategy). Coerentemente con le proprie politiche, Bush ha poi incaricato il suo consigliere per la democrazia globale di destabilizzare la democrazia palestinese, di fatto sottraendo quest’area della politica estera al controllo di Condoleezza Rice.

Il ruolo di protagonista del colpo di stato ideato da Abrams era stato individuato nel presidente Abbas. Quest’ultimo avrebbe usato le milizie di al-Fatah, a lui fedeli, capeggiate dall’ex capo della sicurezza preventiva a Gaza, Mohammad Dahlan (che, attualmente, ricopre la carica di consigliere per la Sicurezza del presidente Abbas). Secondo «Conflictsforum», il ruolo più importante nella preparazione del colpo di stato avrebbe finito per essere affidato non tanto alla CIA (scettica sulla possibilità di riuscita del piano), quanto ad un gruppo di funzionari dell’antiterrorismo, alle dipendenze del Dipartimento di Stato. Costoro, agendo attraverso i servizi segreti giordani ed egiziani, hanno promosso il riarmo delle milizie di al-Fatah e, addirittura, il loro addestramento in due basi a Gerico e a Ramallah. Nel frattempo, gli israeliani guardavano dall’altra parte: come ammesso da un portavoce della Difesa («Jerusalem Post» del 7 giugno), «Non forniamo fisicamente armi ai palestinesi. Permettiamo semplicmente che accada».

Il programma di destabilizzazione ha subito una netta accelerazione subito dopo la conclusione, lo scorso febbraio, della mediazione saudita e la conseguente formazione del nuovo governo di unità nazionale. Secondo le nuove tabelle di marcia, la destituzione del governo palestinese avrebbe dovuto avvenire tanto presto da poter indire nuove elezioni per l’autunno di quest’anno.

Parte integrante dell’accelerazione del piano è stato un parziale rilassamento del blocco economico, in modo da rendere possibile convogliare aiuti finanziari di una certa entità al presidente Abbas. Tali aiuti avevano il fine ufficiale di avviare una serie di progetti di ricostruzione e quello reale di permettere ad Abbas di finanziare i propri partigiani e di puntellare la propria traballante popolarità.

Il piano Abrams aveva però una fatale pecca, tale da farlo oggetto di critica da parte non solo di molti all’interno dei vertici USA (di qui la freddezza della Cia), ma anche dei giordani (tanto che, forse, le rivelazioni di «Al-Majd» sono state pilotate dallo stesso governo di Amman) e, soprattutto, degli stessi israeliani. La pecca in questione era rappresentata dalla ormai scarsissima popolarità del presidente Abbas e dal crollo di prestigio del suo partito, al-Fatah, fatti ben noti agli israeliani. Secondo un articolo pubblicato il 25 dicembre da Ha’aretz, infatti, Yuval Diskin, il capo dello Shin Bet (il corpo dell’intelligence responsabile della sicurezza in Israele e nei territori occupati), in una dichiarazione di fronte al governo israeliano, aveva posto in luce come, mentre Hamas manteneva il suo seguito popolare, al-Fatah si stesse disgregando. Secondo Diskin, in caso di nuove elezioni nell’Autorità Palestinese, «le probabilità di Fatah di vincere […] sarebbero state prossime allo zero». In effetti, al-Fatah era in una tale «cattiva situazione» che ci si sarebbe dovuti aspettare una «travolgente vittoria» da parte di Hamas.
Il piano, però, è scattato lo stesso, anche se, forse, non nei modi previsti da Abrams. E le conseguenze – anche se non le reali responsabiltà – di ciò che sta avvenendo sono sotto gli occhi di tutti.

8. Le ipoteche sulla Palestina
Comunicato del Forum Palestina

15/06

I drammatici sviluppi della situazione e i violentissimi scontri interni allo scenario politico palestinese, devono essere valutati nella loro interezza e nelle loro possibili conseguenze.

Le responsabilità di quanto accaduto pesano enormemente sulla cosiddetta “comunità internazionale” e in modo particolare sull’Unione Europea (compreso il governo italiano), che ha assecondato la politica di strangolamento dei Palestinesi voluta da USA e Israele. Aver contribuito con l’embargo ad affamare la popolazione e a demolire quel minimo di struttura statale nei Territori Palestinesi – assecondando l’assedio di Arafat prima e la delegittimazione del governo palestinese poi, sistematicamente perseguiti da Israele – ha prodotto quella “africanizzazione” della realtà palestinese che ha aperto la strada alla ingovernabilità di Gaza. Il degrado, la miseria, l’assedio hanno prodotto l’autonomizzazione di gruppi e clan che hanno sostituito le istituzioni nella soluzione dei problemi della vita quotidiana di quasi un milione di persone rinchiuse in quella prigione a cielo aperto che è Gaza. La cinica ostinazione con cui Unione Europea e Stati Uniti hanno impedito al governo palestinese democraticamente eletto di fare fronte alle esigenze della popolazione, ha volutamente mirato a questo risultato.

L’attuale frammentazione dello scenario politico palestinese spazza via definitivamente l’inganno e le ambiguità del processo negoziale di Oslo e il conseguente ruolo dell’ANP, attraverso la quale si è cercato di liquidare l’OLP come organismo unitario della lotta di liberazione palestinese, rappresentativo sia della popolazione dei Territori Occupati che dei milioni di Palestinesi della diaspora e del loro diritto al ritorno. In questo processo, le responsabilità principali sono di Al Fatah, che è stata la maggiore organizzazione e la fondatrice dell’OLP ma che si è prestata a tale operazione. Nonostante le pressanti richieste dei suoi militanti migliori, a partire dai dirigenti detenuti nelle carceri israeliane, la mancata autoriforma interna di Al Fatah, che non ha più convocato il suo congresso, non ha orientato i suoi militanti e soprattutto non ha voluto fare piazza pulita dei corrotti e dei collaborazionisti filo-israeliani al suo interno, hanno portato ad una crisi di credibilità profonda e per molti versi irreversibile. Oggi l’unica soluzione possibile sarebbe lo scioglimento dell’ANP, la conseguente denuncia degli accordi di Oslo (mai rispettati dagli occupanti israeliani) e la convocazione del congresso di Al Fatah che spazzi via la sua attuale direzione politica e riconsegni quell’organizzazione al suo ruolo storico di movimento di liberazione del popolo palestinese, accanto alle altre forze della resistenza.

Nella specifica situazione di Gaza, la decisione di Abu Mazen e di Al Fatah di forzare la mano, affidando nuovamente nei mesi scorsi la sicurezza della Striscia ad un personaggio inviso come Mohammed Dahalan, è stata una scelta sciagurata che ha privilegiato l’idea di sostituire una credibilità perduta con manipoli di uomini armati e finanziati da U.S.A., Egitto e Israele. Questa decisione ha legittimato e scatenato la reazione delle correnti più estreme di Hamas, che hanno avuto gioco facile nella contrapposizione politica, morale e militare con Al Fatah a Gaza, dove il suo volto era rappresentato da personaggi come Dahlan, il cui ruolo di collaborazionista, torturatore e corrotto speculatore non era e non è sconosciuto a nessuno.

Oggi si affaccia concretamente il rischio che i Territori Palestinesi si trasformino in bantustans separati tra loro. Esiste cioè il pericolo che il progetto coloniale israeliano si realizzi pienamente con la divisione dei Palestinesi tra Gaza, due enclavi in Cisgiordania e un ghetto sempre più ridotto a Gerusalemme Est. Questa prospettiva viene oggi invocata da tutti i circoli sionisti più aggressivi e non trova proposte alternative da parte della cosiddetta comunità internazionale, che anzi sembra pronta a collaborare per la realizzazione di questo scenario, con il dispiegamento di una forza militare multinazionale a Gaza, irresponsabilmente evocato tempo fa dal ministro D’Alema ed oggi rilanciato dal premier israeliano Olmert e da Javier Solana per l’Unione Europea (con accezioni diverse tra loro). Questa forza non avrebbe altro compito che quello di gendarmeria antipalestinese ed è stata giustamente respinta sia da Mustafà Barghouti sia da Hamas come forza occupante da trattare di conseguenza.

E’ bene che questa situazione venga tenuta presente dai tanti, troppi che nel nostro Paese hanno subito la fascinazione dell’intervento in Libano e potrebbero ripetere lo stesso errore sostenendo quello a Gaza. A costoro chiediamo quale pensano possa essere la reazione di una popolazione che subisce da oltre un anno l’affamamento provocato dall’embargo cui è stata sottoposta per non aver votato come volevano a Washington e Tel Aviv: come si pensa verrebbero accolti dai Palestinesi i soldati dei governi, come quello italiano, che hanno contribuito alla disperazione ed alla miseria di Gaza e dell’intera Palestina?

Infine, la situazione sul campo, se da un lato ipoteca fortemente le prospettive di decenni di lotta di liberazione dei palestinesi, dall’altro sposta in avanti le soluzioni possibili, mettendo fine all’ipocrisia dei “due Stati per due popoli” e ponendo nuovamente alla discussione la prospettiva di “un solo Stato, laico, democratico e multietnico”, fondato sul concetto di cittadinanza piuttosto che su quello di sangue e religione, uno Stato modernamente inteso che ponga fine, almeno in quell’area, all’orrore storico degli stati confessionali ed etnicamente puri.

Il Forum Palestina in questi anni si è assunto la responsabilità di tenere la questione palestinese dentro l’agenda politica dei movimenti e nel nostro Paese, di impedire con ogni mezzo la liquidazione della “seccatura palestinese” nel dibattito e nell’azione politica della sinistra italiana. Riteniamo che oggi questo compito non sia affatto esaurito, semmai è più drammatico ed urgente. Per questo invitiamo tutte le realtà che in questi anni hanno animato la rete nazionale attivatasi intorno al Forum Palestina ad incentivare le occasioni di confronto e di iniziativa. Anche se il vuoto lasciato dalla scomparsa di Stefano Chiarini non sarà facile da riempire, riteniamo di dovere e potere mantenere gli impegni e il lavoro intrapreso in questi anni, con il contributo di tutti gli amici del popolo palestinese, della pace e della giustizia.

Il Forum Palestina

9. Le forze progressiste palestinesi sono chiamate a riprendere in mano la situazione

di Bassam Saleh

Gli scontri nel campo profughi di Nahr el Bared e il massacro in atto a Gaza sono la stessa faccia della stessa medaglia: la guerra preventiva e permanente, che l’amministrazione Bush sta portando avanti in Iraq e in Afghanistan. Una “destabilizzazione creativa”, con un disegno gia preparato, e che potrebbe coinvolgere altri paesi mediorientali, come la Sira e l’Iran. Va sottolineato che gli scontri di Naher El Bared sono iniziati dieci giorni dopo la visita del vice presidente americano Dick Cheney nelle capitali del “quartetto arabo” (Egitto, Arabia Saudita, Giordania, ed Emirati Arabi) e in Iraq.

Cheney, da una portaaerei americana ancorata nel Golfo, ha dichiarato che non esclude la scelta militare per trattare la crisi nucleare con l’Iran, ed ha informato i leader arabi che il logoramento del suo paese nel pantano iracheno non significa che gli USA non possano aprire un altro fronte con l’Iran, anzi questo potrebbe essere la soluzione per una uscita onorevole dall’Iraq.

E’ in atto una corsa di preparativi su piani paralleli – diplomatici e militari – mirati a convincere l’opinione pubblica occidentale e americana in particolare, per mobilitarle a sostegno di qualsiasi decisione di bombardare le infrastrutture iraniane. Sul versante militare, gli osservatori registrano l’aumento delle unità navali e delle portaerei statunitensi nel Golfo, con il pretesto di manovre militari, che hanno visto anche la partecipazione di Israele, promotore e evocatore di un attacco contro l’Iran.

Lo scenario della Palestina di oggi, non è lontano da quello che si prepara per il resto del Medio Oriente.

Per comprendere meglio si deve tornare indietro: alle elezioni in Palestina del 25 gennaio 2006..Va ricordato che queste si sono svolte con la Palestina sotto l’occupazione israeliana e malgrado ciò, credo che tutti abbiano apprezzato la trasparenza democratica delle elezioni, come testimoniano tutti gli osservatori internazionali.

Alternarsi alla guida del governo dell’ANP, in modo democratico e pacifico, si è dimostrato nelle consegne e nelle nomine avvenute per i diversi incarichi governativi. Sembrava di essere in un paese libero e in una democrazia molto avanzata. Ma la democrazia palestinese è stata premiata con l’assedio politico e l’embargo economico, ed il popolo palestinese è stato strangolato.

Occupazione militare, muro, insediamenti e coloni e per finire la fame, sono fattori esplosivi in una zona già esplosiva. Di sicuro non sfugge il mal di pancia di alcuni corrotti di Fatah, ma dall’altra parte non mancano corruzione e oscurantismi, basta citare il potere divino che Hamas vanta di avere.

I primi scontri, risalgono a dicembre dell’anno scorso, e sono durati fino all’accordo di Mecca e alla formazione del governo di unità nazionale tre mesi fa. Ma non viene revocato nè l’embargo nè le sanzioni. Gravi sono le responsabilità dell’occidente, Unione Europea compresa.

La Forza esecutiva e le brigate di Al Qassam , con l’appoggio del ex ministro del interno Sayam e del ex ministro degli esteri Zahar, hanno scatenato vergognosi scontri con le forze della sicurezza nazionale e della sicurezza preventiva, al comando del presidente dell’Anp, Abu Mazen, eletto anche lui dal popolo.

Queste forze non sono al comando di Fatah ma sono una grande organizzazione che fa parte del governo di unità nazionale. Quindi sparare e uccidere a sangue freddo, chi appartiene a queste forze è un atto esplicito contro il governo di unità nazionale. Scatenare una guerra contro l’Anp, può avere solo un nome un “colpo di stato”. Le dichiarazioni di alcuni dirigenti di primo piano di Hamas sulla soluzione militare fanno venire i brividi a tutti i palestinesi e, credo, a tutti gli amanti della Palestina e della pace. Colpisce in modo particolare questa dichiarazione, “Questo e’ l’inizio del dominio islamico”, ha dichiarato a Gaza il portavoce di Hamas, Sami Abu Zuchri, in un comunicato diffuso ai giornalisti dopo che il movimento islamico ha conquistato la sede della sicurezza preventiva, fedele a Fatah. Questa “e’ la seconda liberazione di Gaza”, ha aggiunto, spiegando che la prima e’ stata il ritiro degli israeliani e ora ci si libera dei “traditori”. (ADN Kronos 14/6/07). Forse domani avremo il principato islamico di Gaza che chiederà anche di far parte della Lega Araba e delle Nazione Unite?!

Già, l’inizio del dominio islamico, seconda liberazione, termine che suona strano a chi vive tuttora sotto l’occupazione militare. Ma dove erano queste forze liberatrici quando l’esercito israeliano entrava e usciva, come e quando voleva nel centro di Gaza e uccideva non solo i militanti delle vari fazione, ma cittadini inermi, e se non lo fa oggi e perché lo sta facendo qualcun altro per loro conto.

È un momento drammatico per i palestinesi, non solo per le perdite umane. Politicamente, è in serio pericolo la stessa causa palestinese.

Il presidente Abu Mazen, è chiamato, a continuare il dialogo con tutte le fazioni palestinesi, senza cedere ai ricatti e alle demagogia delle armi. Le forze progressiste e laiche palestinesi sono chiamate a riprendere la situazione in mano insieme alla società civile che ha manifestato contro lo spargimento di sangue palestinese, e hanno dimostrato al mondo che questo popolo ancora una volta è capace di resistere, contro l’occupazione e contro chi spara ai manifestanti.

10. Comunicato del leader Marwan Barghouti, segretario di Fatah in Palestina e detenuto nelle carceri israeliane.

Dalla mia cella, piccola e buia, mi rivolgo al mio Grande Popolo per:

1. Io condanno il golpe militare contro la legittima Autorità Palestinese e le sue istituzioni nella Striscia di Gaza.

2. considero il golpe militare a Gaza una grave minaccia all’unità della patria e alla causa palestinese, una deviazione dalla scelta della resistenza e un sabotaggio al principio della condivisione nazionale.

3. considero questo golpe una minaccia alla esperienza democratica e alla stessa scelta democratica che ha portato Hamas al potere

4. appoggio pienamente la decisione di formare un nuovo governo presieduto dal Dott. Salam Fayadh in qualità di Primo Ministro, nella speranza che imponga il rispetto della legge e ponga fine al disordine e di lavorare per mantenere l’unità della patria, il popolo e la causa.

5. condanno senza riserve l’oltraggio, alle proprietà, alle istituzioni, alle persone ai quadri e ai dirigenti di Hamas in Cisgiordania, ed il rifiuto assoluto di trasferire le dolorose immagini e scene di Gaza in Cisgiordania .

6. invito il presidente Abbas , nella sua qualità di comandante generale di Fatah a formare una nuova direzione di Fatah a Gaza diversa dai dirigenti che si trovano a Gaza.

7. destituire i comandi degli apparati di sicurezza e nominare nuovi comandanti capaci di riformare e sviluppare le istituzioni della sicurezza palestinese, in tutti i suoi rami, su basi professionali, che le renda più capaci di svolgere le proprie missioni: difesa della patria, dei cittadini, il progetto nazionale e le istituzioni dell’autorità, fronteggiare l’aggressione dell’occupante, il mantenimento della pubblica sicurezza, l’attuazione delle legge, porre fine al disordine e alle manifestazioni e alle sfilate armate.

8. chiedo di formare un comitato d’emergenza per la direzione di Fatah, formata dai dirigenti combattenti, capace di far rinascere di nuovo il Movimento, ricostituendo le sue istituzioni e processare gli incapaci, i corrotti, i falliti, e che sia capace di: fare immediatamente il Sesto Congresso Generale del Movimento, difendere il progetto nazionale, l’unità della patria e del popolo e della causa, e continuare la nostra lotta nazionale per realizzare gli obiettivi del nostro popolo dal ritorno alla libertà e all’indipendenza.

9. invito il signor Ismael Hanieyh ad accettare la decisione del presidente Mahmuod Abbas di destituirlo insieme al governo secondo la procedura legale e costituzionale, in rispetto alla costituzione e alla legge fondamentale, e di collaborare con il nuovo governo per salvare ciò che è rimasto dalla legittimità palestinese e salvare l’unità della patria, del popolo e della causa.