Palestina la vittoria degli sconfitti

        Dapprincipio era la pace

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Dopo millenni di coesistenza e tribolazioni comuni, cent’anni fa musulmani, cristiani ed ebrei vivevano in pace in Palestina.

Questa non era affatto una terra “vuota”: 600.000 arabi popolavano 20 città e 800 villaggi. Gli ebrei erano ventiquattro volte meno numerosi degli arabi, e vivevano concentrati in quattro città sacre (Gerusalemme, Hebron, Safad e Tiberiade), dediti alla preghiera.

Il “problema palestinese” non esisteva. Esistevano solo le mire imperialiste sul Medio Oriente.

All’epoca gli ebrei erano si oggetto di atroci persecuzioni, ma ciò accadeva nella “cristiana” Europa e non in Palestina. Il movimento politico per il “ritorno” degli ebrei alla mitica collina di Sion in Gerusalemme (il sionismo) , non era ancora nato. Ma la diplomazia inglese aveva già i suoi piani per chiamare gli ebrei a difesa degli interessi britannici in Medio Oriente. Ce ne informava il “Times” dell’8 agosto del 1840. Nel “ritorno alla luce” degli ebrei, gli inglesi vedevano “il sistema più economico e sicuro per equipaggiare del necessario” un territorio di importanza strategica.

L’idea astratta diventa un piano

Sorto sull’onda delle persecuzioni antisemite della seconda metà dell’ottocento, il sionismo ha potuto trasformarsi in movimento politico reale solo inserendosi nella logica dell’espansione coloniale e industriale delle grandi potenze europee. A quel tempo gli stati coloniali europei dominavano il mondo. Per ogni mutamento geopolitica era necessario il loro appoggio. Il cambiamento doveva quindi rientrare nell’ambito dei loro piani. Il primo programma sionista di colonizzazione della Palestina del 1896, condensato nella frase di Teodoro Herzl “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, ricalcava la visione coloniale secondo cui i popoli situati al di fuori delle frontiere della “civiltà” non avevano diritti. Il fondatore del sionismo suggeriva “per prima cosa i sionisti dovranno procurarsi terre arabe in quantità sufficiente” e raccomandava: “gli autoctoni, principalmente i poveri, dovranno essere respinti al di là delle frontiere dei paesi vicini”. Fin dall’inizio il sionismo è stato l’espressione di un nazionalismo di stampo marziale che ipotizzava “l’invincibilità militare”.

I documenti storici hanno dimostrato che le esplosioni di violenza contro gli ebrei nel corso del 1800 e all’inizio del 1900 nell’Europa orientale erano manifestazioni pilotate dalle varie polizie segrete e volute dai governi con lo scopo di attribuire la miseria nelle campagne alla presenza degli ebrei, al fine di deviare verso un falso obiettivo la collera dei contadini. Leggi antisemite e persecuzioni originarono varie ondate di emigrazione. Ma degli ebrei che abbandonavano l’Europa dopo il 1881 fino al 1914 solo poche migliaia scelsero la Palestina. I più (2.600.000) scelsero le Americhe. La predicazione sionista del “ritorno” alla terra biblica ebbe all’inizio scarsa presa in quanto l’idea di una colonizzazione della Palestina era sostanzialmente estranea agli interessi della grande maggioranza degli ebrei nel mondo. Questi consideravano l’ebraismo solo una religione e aspiravano soprattutto a integrarsi nelle società in cui vivevano.

 

 

Teodoro Herzl, intellettuale ungherese, fondatore del movimento politico sionista pubblicò a Vienna nel 1896 “Lo Stato ebraico”, testo fondamentale del sionismo, e l’anno seguente a Basilea, in Svizzera, si tenne il primo Congresso mondiale sionista, che diede vita alla “World Zionist Organization”, organizzazione sionista mondiale, la cui missione era la “creazione in Palestina di una sede nazionale per il popolo ebraico garantita dal diritto pubblico”, cioè uno Stato. Herzl non teneva in alcun conto la popolazione araba della Palestina e annotava nei suoi diari che “la popolazione araba sarebbe giusto adatta per servire ai bisogni coloniali degli ebrei”.

La svolta storica

L’apertura alla navigazione, nel 1869, del canale di Suez, l’occupazione militare inglese dell’Egitto nel 1882 e le rivalità imperialistiche, conferendo alla Palestina una nuova importanza strategica nella regione, hanno creato le condizioni materiali perché si avviasse la realizzazione del piano sionista di colonizzazione. E’ di qui che prende inizio la tormentata storia contemporanea della Palestina. E’ sintomatica la sincronia con cui si sono affacciati insieme in Terra Santa regnanti, grande capitale finanziario e sionismo. Giusto nel 1869 nasce la prima scuola e nel 1878 la prima colonia sionista, ed è giusto nel 1882 che il banchiere francese Edmond de Rothschild, e il milionario tedesco Maurice de Hirsch iniziano a finanziare la colonizzazione ebraica della Palestina. Fin dalle origini l’idea di fondare uno Stato sionista in Medio Oriente è risultata perfettamente funzionale agli interessi europei. Per gli ideatori, il futuro Stato sionista doveva essere forte, di carattere “imperiale e glorioso”, per riflettere la superiorità del “popolo eletto” sugli altri popoli in Asia e in Africa.

Edmond de Rothschild, barone ebreo e finanziere francese, fu pioniere del grande capitale internazionale nello sfruttamento delle ricchezze petrolifere del Medio Oriente. Con il suo finanziamento a partire dal 1882, la “Palesatine Jewish Coloniziation Association” si dedicò all’acquisto di terre ai quattro angoli della Palestina, terre che risulteranno a tempo debito preziosi punti strategici lungo i confini dei paesi arabi. Fondò un’impresa di elettricità, una cementifera e una per l’estrazione del sale, formando il nucleo iniziale della futura industria ebraica. Comprò dagli arabi il Muro del Pianto a Gerusalemme.

I lavori per il taglio del Canale di Suez iniziarono nel 1859 ed il canale fu navigabile nel 1869.

La promessa tradita

Fino al 1914, la colonizzazione sionista della Palestina aveva fatto pochi passi avanti. La comunità ebraica era cresciuta lentamente fino a costituire l’8% della popolazione, ma possedeva solo il 2,5% della terra. Gli ebrei insediati in Palestina non erano che l’1% della popolazione ebraica mondiale e il movimento sionista non aveva ancora l’appoggio formale di alcuna grande potenza. Pur conoscendo l’obiettivo finale della colonizzazione, gli arabi, costituendo il 92% della popolazione, in possesso del 97,5% della terra, non si consideravano in pericolo. La prima guerra mondiale mutò i termini della situazione. Per vincere la guerra contro i turchi che minacciavano il Canale di Suez, gli inglesi e gli alleati negoziarono nel 1915 l’aiuto degli arabi con la falsa promessa dell’indipendenza. Ma, già nel 1916, Inghilterra e Francia firmavano l’accordo segreto Sykes-Picot per spartirsi il Medio Oriente e ridurre allo stato coloniale Siria, Irak, Libano, Palestina e Giordania.

Emergeva cosí per un eventuale Stato sionista un ruolo possibile di avamposto europeo in Medio Oriente.

 

La leggenda del colonnello Thomas Edward Lawrence, alias “Lawrence d’Arabia” nasconde in realtà una più banale “operazione speciale” dei servizi segreti britannici per utilizzare i combattenti arabi nella guerra del deserto contro i turchi, con la promessa, poi tradita, dell’indipendenza. Furono i rivoluzionari russi che, scoperta una copia dell’accordo Sykes-Picot negli archivi dello Zar resero pubblico l’inganno.

Solo la ribellione araba contro i turchi permise all’Inghilterra e alla Francia, impegnate nella guerra contro la Germania, di sconfiggere contemporaneamente anche la Turchia. Nel 1919, un congresso panarabo proclamò la nascita di uno Stato arabo comprendente Palestina, Siria, Transgiordania e Libano. Ma la Società delle Nazioni avallò invece il patto segreto franco inglese del 1916 decretando lo smembramento della regione in 5 Stati i cui confini non corrispondevano ne alla realtà etnica ne a quella religiosa. Le basi dei molti conflitti odierni furono poste allora.

L’impegno del presidente

Il conflitto 1914-1918 ha prodotto l’inclusione definitiva del progetto per uno Stato ebraico in Palestina nei piani dell’imperialismo inglese. Alla vigilia della guerra, Chaim Weizmann, massimo dirigente della organizzazione sionista, scienziato al servizio dell’ammiragliato britannico (allora diretto da Winston Churchill) nella produzione di esplosivi per munizioni navali, che nel 1948 diverrà il primo capo dello Stato di Issale, scriveva al “Manchester Guardian”:”se la Palestina entrerà nell’area di influenza britannica e se l’Inghilterra incoraggerà l’installazione di ebrei, sarà possibile introdurre in quel paese un milione di ebrei che faranno solida guardia al canale di Suez”. Era l’impegno del presidente per un modello di colonizzazione. A guerra finita il comandante delle truppe in Palestina consigliava al primo ministro inglese:”non è possibile essere amici degli ebrei e degli arabi nello stesso tempo. Sono dell’avviso che dobbiamo concedere la nostra amicizia solo agli ebrei”. Una scelta densa di conseguenze era fatta.

Chaim Weizmann, divenuto capo dell’organizzazione sionista dopo la morte di Teodoro Herzl, è stato il creatore del modello definitivo per la colonizzazione della Palestina. Alla fine della prima guerra mondiale c’era fra i sionisti anche chi ipotizzava il trasferimento di 10 milioni di ebrei, più o meno tutti gli ebrei del mondo, in Palestina e nei territori adiacenti. Il progetto sionista era basato su una pianificazione dell’occupazione  graduale del territorio abitato dagli arabi, su negoziati politici ai più alti livelli per ottenere gli appoggi internazionali necessari alla sua realizzazione, su una dimensione mondiale della raccolta di enormi mezzi finanziari e su una precisa valutazione del momento politico propizio per l’atto finale della “colonizzazione”, la conquista del territorio. La fase della “acquisizione” della Palestina, dagli ultimi anni del 1800 fino al 1947, che ha preceduto la fase della conquista militare, è stata organizzata dai sionisti come una gigantesca impresa industriale a scala universale, dotata di tutta una gamma di organismi capaci di agire ovunque e in ogni settore, dalla “World Zionist Organization” alla “Zionist Federation”, organismi politici, al “Jewish Colonial Trust”, banca per l’acquisto di terre che diventerà poi la banca nazionale di Israele, alla “Palesatine Land Development Company”, che centralizzava il reperimento dei terreni e ne coordinava l’utilizzo strategico, al “Jewish National Fund” che amministrava i contributi volontari degli ebrei di tutto il mondo, alla “Jewish Agency”, che organizzava l’afflusso degli immigrati, alla”Haganah”, organizzazione militare che si trasformerà nell’esercito di Israele.

Il secondo inganno

Nel novembre 1917, mentre l’esercito del generale Allenby metteva fine al dominio turco sulla Palestina entrando in Gerusalemme, il ministro degli esteri britannico Lord Balfour rendeva di pubblico dominio la famosa “dichiarazione”

Indirizzata a un grande banchiere, sionista, inglese e Lord, Lionel Walter Rothschild, con la quale l’Inghilterra “concedeva” agli ebrei il diritto di creare nella Palestina occupata dalle truppe inglesi un “focolare nazionale”. La principale potenza imperiale del mondo aveva cosí preso il sionismo sotto la sua protezione. Come ha detto lo scrittore ebreo Arthur Koestler, la dichiarazione Balfour è stata “una promessa con cui una nazione ha dato a un’altra nazione un territorio appartenente a una terza nazione”. Quanto agli arabi, non furono neppure consultati. Sintomatico di una mentalità colonialista, nella “dichiarazione” gli arabi palestinesi, che costituivano il 97% della popolazione, non avevano neppure diritto a un nome. Venivano menzionati spregiativamente solo come “comunità non ebraica”.

Il testo della dichiarazione Balfour dice:

“Caro Lord Rothschild, sono molto lieto di inviarle, da parte del Governo di Sua Maestà, la seguente dichiarazione di simpatia per le aspirazioni degli Ebrei Sionisti che è stata sottoposta al Gabinetto ed approvata. Il Governo di Sua Maestà vede con favore lo stabilirsi in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico e farà del suo meglio per facilitare il conseguimento di questo obiettivo, essendo chiaramente inteso che nulla sarà fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina o i diritti e gli statuti politici di cui gli Ebrei godono in ogni altro paese. Le sarò grato se porterà questa dichiarazione a conoscenza della Federazione Sionista. Sinceramente vostro, Arthur James Balfour”.

Era stato con il finanziamento del ramo inglese dei banchieri Rothschild che la Gran Bretagna aveva a suo tempo acquistato la maggioranza delle azioni della società di gestione del Canale di Suez.

C’erano anche gli italiani

Il corpo di spedizione italiano in Palestina era inizialmente costituito da un battaglione di bersaglieri e da un drappello di carabinieri. Andò poi gradatamente ampliandosi, raggiungendo la forza di 100 ufficiali e 3000 uomini. Era costituito da 1 battaglione di fanteria, 1 compagnia di bersaglieri, 1 battaglione di fanteria formato da ex prigionieri liberati, 1 compagnia e 1 squadrone di carabinieri, servizi di sanità, automobilistico, veterinario, di sussistenza e 1 battaglione di “Cacciatori di Palestina”. Nel 1917 era stata costituita a Porto Said una “Compagnia Cacciatori di Palestina” con italiani volontari, residenti in Egitto. Quando il governo ordinò che tutti gli italiani residenti in Egitto venissero arruolati, la compagnia divenne “battaglione”. Il corpo di spedizione italiano rimase in Palestina 29 mesi e partecipò all’offensiva nell’ottobre 1917 con il XXI corpo britannico e all’occupazione di Gerusalemme il9 dicembre. Per questo motivo, il proclama del generale Allenby che stabiliva la legge marziale in Gerusalemme era redatto anche in lingua italiana. Il governo italiano aderí alla “dichiarazione Balfour” per bocca del ministro Sonnino l’8 maggio 1918. Fra le truppe alleate che entrarono in Gerusalemme c’erano anche tre battaglioni della “Legione ebraica” comandata dal capo sionista di estrema destra Vladimir Jabotinski, il quale aveva nel suo programma la conquista militare del “grande Israele”, comprendente anche parte del Libano e della Siria, l’attuale Giordania e il Sinai fino a Suez. Furono invece accuratamente escluse dall’offensiva che portò all’occupazione di Gerusalemme le truppe arabe, che pur facevano parte dell’esercito alleato.

1917: l’occupazione militare inglese della Palestina apre definitivamente la strada al futuro stato di Israele

Il protettorato inglese sulla Palestina è stato in pratica un condominio anglo sionista. La “dichiarazione Balfour”, già incorporata nel trattato di pace, divenne parte integrante del “mandato” sulla Palestina. I termini del mandato consentirono a inglesi e sionisti di usare l’immigrazione di massa per rovesciare l’equilibrio della proprietà. Gli inglesi attuarono una politica di impoverimento verso gli arabi, con imposte sui piccoli contadini per costringerli a vendere la terra, e trasferirono ai sionisti grandi superfici di proprietà demaniali; fecero partecipare gli immigrati ebrei all’amministrazione civile, trasformando gli organismi sionisti in uno stato nello stato. Ma negarono lo stesso diritto agli arabi.

Quando l’accordo era possibile

C’è stata mai una possibilità di accordo? Quando ancora non erano state prese a livello internazionale decisioni irreparabili e il solco d’odio fra i “cugini” arabi ed ebrei non era ancora un abisso, il capo dei sionisti Weizmann e il comandante delle truppe arabe, l’emiro Feisal, avevano sottoscritto il 3 gennaio 1919 a Londra un accordo memorabile. Gli arabi volevano l’indipendenza, e nel quadro di un grande stato indipendente si dichiaravano pronti “a suscitare e incoraggiare una emigrazione di ebrei in grande stile in Palestina”. Ma l’indipendenza di un grande stato a prevalenza araba in Medio Oriente era in realtà ciò che le grandi potenze europee meno desideravano. Gli arabi non ebbero l’indipendenza e l’accordo svanì. L’occasione di pace fu perduta, e le posizioni divennero inconciliabili. I capi sionisti proclamarono apertamente: “la Palestina diverrà altrettanto ebra quanto l’Inghilterra è inglese”. Per la dottrina sionista liberata delle ambiguità tattiche non poteva esserci parità fra arabi ed ebrei, ma solo predominio ebraico. Come una dichiarazione di guerra.

Nell’ottobre del 1921 una delegazione palestinese (della quale facevano parte due cristiani) consegnò a Winston Churchill, all’epoca ministro delle colonie nel governo inglese, un memorandum per chiedere l’arresto della colonizzazione sionista. Il documento afferma:

“Gli abitanti della Palestina non si accontenteranno della promessa che verrà loro concesso un certo grado di partecipazione alle decisioni riguardanti il loro avvenire, giacché l’amministrazione inglese permette attualmente che il loro paese subisca un flusso di immigrazione straniera e che sia posto in gran parte sotto controllo sionista. Il popolo palestinese non ammetterà mai che una organizzazione straniera, qualunque essa sia, possa arrogarsi il diritto di spossessarlo del proprio paese e di minacciarlo nella sua stessa esistenza come popolo e il suo diritto all’autodeterminazione. Le gravi e crescenti tensioni fra i palestinesi nascono dalla loro assoluta convinzione che l’attuale politica del governo inglese sia diretta ad espellerli…”.

La colonizzazione strategica

Dal 1882 al 1917, nei trentacinque anni precedenti l’occupazione militare britannica, gli immigrati sionisti arrivati in Palestina erano stati 26.000, una media di 750 l’anno. Ma nei primi quattro anni dell’occupazione inglese, fra il 1918 e il 1921, ne giunsero 26.000, tanti quanti in 35 anni, con una media di 6.500 l’anno. In dieci anni ne arrivarono 100.000 e in 17 anni 250.000. Una invasione silenziosa. Fra il 1918 e il 1936 furono fondate 124 nuove colonie agricole, e la percentuale della popolazione ebraica passò dal 9,7% al 29,5%. Ma la proprietà  sionista del territorio palestinese restò limitata al 5,4 %. La tattica della “acquisizione” praticamente fallì. La lotta per la terra è stata il fulcro dello scontro in Palestina negli anni ’20 e ’30. I sionisti acquistavano terre a qualsiasi prezzo, ma solo alla condizione che fossero vuote dei loro abitanti. Ma poterono comperarle solo dai ricchi proprietari residenti fuori della Palestina, che potevano cederle senza sparire socialmente. La gran massa dei contadini arabi difese la propria terra, rifiutando di vendere anche una sola zolla.

La colonizzazione sionista ha proceduto fatalmente in un ambiente di crescente ostilità, culminata nello scontro armato. L’aumento dell’afflusso di immigrati sionisti negli anni ’30 ha avuto due cause principali: le persecuzioni e la degradazione delle condizioni di vita degli ebrei in molti paesi d’Europa, e la determinazione sionista nel canalizzare l’emigrazione verso la Palestina. Ma è stato favorito anche dall’atteggiamento di molti che chiusero le porte ai profughi dall’Europa nazista: la Francia il 4 maggio 1938, il Belgio il 18 settembre 1939. Gli Stati Uniti proibirono nel giugno ’41 l’immigrazione a chi fuggiva dall’Europa occupata anche se aveva già dei parenti negli Stati Uniti.

La prima grande rivolta palestinese è durata 3 anni, dal 1936 al 1939

5.000 morti 14.700 feriti migliaia di arrestati e deportati 112 impiccati: ma non era che l’inizio.

Era nell’ordine naturale delle cose che il piano di appropriazione straniera della Palestina, minacciando le masse popolari palestinesi nel loro mezzo di esistenza immediato, la terra, e prospettando un nuovo tipo di dominazione, suscitasse una rivolta di grandi proporzioni. E’ ciò che accadde fra il 1936 e il 1939. La rivolta prese l’avvio con uno sciopero generale di sei mesi, dal maggio all’ottobre del ’36, e si trasformò in una sanguinosa guerra civile che ebbe fine solo alla vigilia della seconda guerra mondiale, nell’estate del 1939. Gli inglesi perdettero il controllo di gran parte della Palestina, e furono costretti a una vera riconquista del territorio, con l’ausilio di grandi mezzi, aerei, carri armati e artiglieria pesante e con l’aiuto dei sionisti organizzati militarmente.

Gli scontri fra polizia britannica e dimostranti palestinesi nel giugno del 1936, all’inizio della grande rivolta, occupavano le prime pagine dei giornali di Londra. Ma il mondo colonialista rimase sostanzialmente indifferente di fronte al problema palestinese che stava nascendo nelle sue forme attuali e fu ben lontano dal percepire tutta la portata storica della rivolta popolare, primo episodio di una resistenza che non potrà più essere soffocata.

Senza via d’uscita

C’era un messaggio diretto al mondo nella grande rivolta palestinese del 1936-1939, fase  culminante di una serie ininterrotta di rivolte (1921, 1929, 1933, 1935) che avevano accompagnato tutta l’operazione di “amputazione” politica della Palestina. Il messaggio era che i palestinesi non potevano essere “soppressi”. I comitati della resistenza palestinese proclamarono: “ogni tentativo di stabilire uno stato ebraico su un territorio arabo è un atto di aggressione al quale sarà resistito in stato di legittima difesa”. La grande rivolta affermò l’esistenza sulla scena internazionale di un popolo determinato a difendere la sua identità nazionale e insieme dimostrò che l’affronto all’arabismo, all’Islam, e la sfida all’anticolonialismo, generavano nella base popolare palestinese sentimenti di delusione, di umiliazione e di indignazione, capaci di alimentare una lotta irriducibile. La grande rivolta diede al mondo in chiaro il segnale che in Palestina si stavano gettando le basi di un conflitto senza fine.

Armare gli uni disarmare gli altri

Mentre conducevano una politica sistematica di disarmo della popolazione araba, nello stesso tempo gli inglesi consentivano la creazione di una possente forza militare sionista. Nel corso della grande rivolta l’amministrazione inglese favorí l’organizzazione, l’armamento e l’addestramento dell’esercito segreto dell’agenzia ebraica, l’”Haganah”, facendone un vero esercito della comunità sionista, e autorizzò la creazione di una forza speciale detta “Jewish Settlement Police” (polizia della colonizzazione ebraica) e delle “Special Night Squads”, squadroni misti composti per metà di inglesi e per metà di sionisti, destinati a “operazioni speciali” contro i villaggi palestinesi.

Parallelamente nascevano altre formazioni militari indipendenti ispirate a principi di estremismo fanatico quali la “Banda Stern” e l’”Irgun”. Sorgeva in questo modo, sotto la protezione britannica, il nucleo centrale di quell’esercito che avrebbe in seguito attuato la fase finale della conquista del territorio palestinese e realizzato l’espulsione della popolazione araba, travolgendo ogni resistenza allo stato ebraico.

Entrano in scena gli Stati Uniti

Impressionati dal carattere irriducibile della resistenza palestinese, gli inglesi temettero nel 1939 che il conflitto con i sionisti potesse spingere gli arabi ad allearsi con i tedeschi nell’ormai imminente guerra mondiale. Con un voltafaccia radicale, per riconquistare simpatie fra gli arabi, il governo britannico adottò una politica di netto distacco dai piani sionisti, negando in documenti ufficiali che in futuro la Palestina potesse mai divenire uno stato esclusivamente ebraico. Ma al posto dell’Inghilterra entrò in scena l’America. Nel maggio 1942, all’Hotel Biltmore di New York, si tenne l’incontro che installò il sionismo nell’orbita USA come strumento complementare del sistema di dominio americano in Medio Oriente. Il “Zionist Biltmore Program”, approvato da 600 eminenti ebrei americani e 67 dirigenti sionisti di tutto il mondo guidati da Chaim Weizmann e David Ben Gurion, ricalcava il programma del sionismo più estremista: dominio ebraico su tutta la Palestina, creazione di un esercito ebraico, immigrazione illimitata.

In un incontro segreto il presidente americano Truman assicurò Weizmann che gli Stati Uniti avrebbero riconosciuto lo Stato Ebraico nel momento stesso della sua proclamazione. Forti di questa assicurazione, i sionisti poterono scatenare l’offensiva finale. Nel corso della guerra 1939-1945, servendo i bisogni dell’esercito inglese impegnato contro tedeschi e italiani nel Nord Africa, i sionisti svilupparono anche una vera e propria industria bellica. Tale industria permise all’”Haganah” di dotarsi al momento opportuno anche di mezzi blindati. I sionisti costituirono “segretamente” perfino una aviazione militare con aerei acquistati un po’ ovunque, fatti atterrare in Palestina su piste di fortuna.

La motivazione principale della entrata in scena degli Stati Uniti in Palestina a sostegno dei sionisti, si deve ricercare nell’importanza assunta dal pretorio nel corso della seconda guerra mondiale e nell’accresciuto interesse americano per il Medio Oriente. Nel 1943 la “Standard Oil Company of California” ottenne la concessione per lo sviluppo delle risorse petrolifere in Arabia Saudita. Il movimento sionista americano, guidato dal rabbino Stephen Wise, mobilitò la comunità ebraica degli Stati Uniti, la più grande del mondo occidentale per numero e per importanza economica, sulla base dell’equazione: sionismo è uguale a americanismo. Il presidente Roosevelt diede pubblicamente il suo appoggio alle tesi sioniste. Per la sua rielezione divennero decisivi i voti degli ebrei. Un terzo dei membri del Senato americano e 143 deputati firmarono con 1500 personalità del mondo economico, politico e culturale, un documento che chiedeva la costituzione di un esercito ebraico regolare. Mozioni di sostegno al programma sionista furono votate in 33 Stati americani. Dopo il 1939 l’obiettivo sionista divenne quello di incrementare l’immigrazione di massa, e di rafforzare l’organizzazione sionista di difesa. Accusato dai turchi di tramare un colpo di mano sionista per impadronissi di Gerusalemme, nel 1916 si era rifugiato negli Stati Uniti dove aveva raccolto volontari per la Legione Ebraica. Massima autorità sionista in fatto di politica militare, Ben Gurion era quello, fra i dirigenti sionisti, che più decisamente sosteneva la “fatalità” di uno scontro frontale fra arabi ed ebrei. Dopo la proclamazione dello Stato di Israele ne divenne primo ministro e ministro della difesa, e in questa veste fu il principale artefice dell’espulsione dei palestinesi. Una organizzazione a scala mondiale e mezzi finanziari praticamente illimitati permisero ai sionisti di accumulare grandi quantità di armi. Già nel 1939, l’Haganah, oltre alle armi in possesso della Jewish Settlement Police, possedeva nei suoi depositi segreti 6000 fucili, 600 mitragliatrici, 1 milione di pallottole, 36000 granate, 48 mortai e 5000 colpi per mortaio. Secondo un rapporto presentato a Truman nel 1946, i sionisti disponevano di una forza militare imponente: 40.000 uomini dell’Haganah, 16.000 commandos del Palmach, oltre a 3000 uomini dell’Irgun e 300 della banda Stern, perfettamente armati e addestrati. Un vero esercito.

La commozione per lo sterminio di sei milioni di ebrei nei

lager nazisti acceca il mondo di fronte a un nuovo errore storico

Ancora oggi molti sono portati, per insufficienza di informazione, a vedere nella nascita dello Stato di Israele nel 1948 una conseguenza diretta dell’olocausto di sei milioni di ebrei nei campi di sterminio nazisti. In realtà la tragedia causata dalla ferocia hitleriana ha prodotto le condizioni che hanno aperto la strada alla conclusione di un processo che era già in corso da più di sessant’anni. La fase finale della conquista sionista della Palestina ha più semplicemente trovato un impulso nel movimento universale di pietà verso gli scampati al genocidio. Pochi si resero conto allora che la contropartita del trasferimento in massa di un intero popolo in Palestina era l’annientamento di un altro popolo. Centinaia di navi caricate di rifugiati ebrei nei porti europei furono guidate da unità speciali dell’Haganah verso le coste della Palestina. La popolazione ebraica che nel 1917 contava 56.000 individui, arrivò a 700.000 i rapporti di forza numerici in Palestina furono cosí sovvertiti a quel grado da rendere possibile l’operazione finale di espulsione dei palestinesi.

Gli inglesi regolavano l’immigrazione ebraica in Palestina sulla base di “quote” mensili che i sionisti si sforzavano sistematicamente di superare, organizzando l’immigrazione illegale su vasta scala. Fra il 1934- e il 1947, l’Haganah ha introdotto in Palestina 100.200 immigrati clandestini su 127 navi. La prima ondata di immigrati era arrivata dalla Russia e dall’Europa orientale a cavallo della fine del secolo scorso; dal 1922 al 1927 si ebbe una seconda ondata di immigrati, circa 12.000, provenienti in maggioranza dalla Polonia. Una terza ondata, a partire dal 1934, condusse in Palestina 210.000 ebrei tedeschi e di altri paesi d’Europa. La quarta ondata fu costituita dagli scampati al genocidio, dopo la guerra.

L’immigrazione illegale sionista di massa in Palestina fu, dal punto di vista arabo, una “invasione”. Gli inglesi intercettarono alcune navi, come nel caso della “Exodus’47” i cui 4500 passeggeri furono riportati nei campi profughi in Germania. Ma il massiccio moto di simpatia e solidarietà verso gli ebrei mentre era vivo l’orrore per lo sterminio nazista non poteva non rendere più simbolica che effettiva la sorveglianza britannica delle coste palestinesi. La proporzione della popolazione ebraica in Palestina, che era del 9,7% rispetto a quella araba nel 1919, passò al 16,8% nel 1925, al 17,8% nel 1930, al 26,8% nel 1935, al 31,4% nel 1940 e al 35,1% nel1946.

L’arma del terrore

Cogliendo nel declino della potenza inglese, e negli stessi risvolti politici internazionali della tragedia ebraica, una opportunità storica irripetibile per realizzare il loro obiettivo, i sionisti hanno ingaggiato negli anni tre 1l 1940 e il 1948 una lotta contro il tempo per affrettare l’atto finale e stabilire il fatto compiuto in Palestina. Dopo il voltafaccia dell’Inghilterra la presenza dell’esercito britannico restava l’ultimo ostacolo reale alla sovranità ebraica sulla Palestina. Per indurre gli inglesi ad abbandonare nelle loro mani il territorio palestinese e a dare via libera a uno scontro diretto fra arabi ed ebrei da cui erano certi di uscire vincitori, i sionisti non esitarono a scatenare contro i vecchi alleati una sanguinosa guerra terroristica condotta con spietata determinazione. Il terrorismo sionista collocò il governo inglese do fronte a un dilemma impossibile: o schiacciare la ribellione degli ebrei con la forza, ipotesi inaccettabile all’indomani dell’olocausto, o sgomberare. La scelta fu ovvia. L’evacuazione divenne perciò un eleme4nto della strategia sionista.

Il 22 luglio 1946 un’ala del King David Hotel di Gerusalemme, sede centrale del governo inglese in Palestina, crolla per lo scoppio di 500 chili di tritolo: 91 morti e oltre 100 feriti. Con centinaia di attacchi armati alle sedi amministrative, ai posti di polizia, a stazioni radio, a prigioni, aeroporti, con bombe contro i treni, ponti, navi, con attentati contro ufficiali inglesi, distruzioni di depositi e autobombe, il terrorismo sionista antibritannico negli ultimi anni del “mandato” ha assunto, per estensione e intensità, le caratteristiche di una vera e propria guerra  di logoramento. In teoria, il terrorismo fu condotto dalle organizzazioni militari “indipendenti” <Irgun Zwai Leumi> (Organizzazione militare nazionale), finanziata dai sionisti americani, e <Lohemai Herut Israel> (Combattenti per la libertà di Israele), più nota come banda Stern, ma è difficile stabilire il confine che divideva il loro campo di operazioni da quello dell’Haganah, esercito segreto dell’Agenzia Ebraica, che dal 1939, sotto il comando di Ben Gurion, sovrintendeva alla immigrazione, alla colonizzazione delle terre e alle azioni armate contro gli arabi. Dal 1939, l’intera comunità ebraica in Palestina era di fatto militarizzata.

Da inserire.

Tutto un popolo espropriato

Non una ma due sono state le guerre di espulsione dei palestinesi dalla loro terra. La prima, di cui poco si parla, ma la più importante, è stata quella scatenata dall’adozione da parte dell’ONU, il 29 novembre 1947, di un irrealistico piano di spartizione della Palestina in due stati, uno arabo e uno ebraico. La decisione dell’ONU, che forniva una ipotesi di legalità allo Stato Ebraico, era il segnale che i sionisti attendevano. Il 13 dicembre 1947, L’Haganah, l’Irgun e la Banda Stern uniti, davano l’avvio a una offensiva che in cinque mesi, inglobando come elemento favorevole alla strategia sionista la presenza passiva delle truppe britanniche fino alla fine del mandato (14 maggio 1948), doveva condurre all’espulsione della popolazione palestinese. Il “piano Dalet” dava carta bianca ai comandanti di reggimento e di battaglione per “ripulire” il territorio e autorizzava l’evacuazione forzata dei villaggi e dei quartieri arabi (ostili” o “potenzialmente ostili”,vale a dire tutti. Nelle città, alla partenza senza preavviso dei soldati inglesi, seguivano il bombardamento e l’attacco sionista per spingere la popolazione alla fuga. Nelle campagne i reparti sionisti, travolta ogni resistenza, entravano nel villaggio e lanciavano l’avvertimento con il megafono: entro poche ore l’abitato doveva essere deserto. Gli arabi rischiavano altrimenti di saltare in aria con le loro case. Dopo il massacro di Deir Yassin e altri episodi analoghi, il “fattore atrocità” ebbe un ruolo decisivo per diffondere il panico e indurre la popolazione all’esodo. 474 centri abitati arabi caddero in mano sionista, 358 dei quali, rasi al suolo, scomparvero dalla carta. Privi di una forza militare effettiva e di una unità di commando, i palestinesi, armati di poche migliaia di fucili, non poterono opporre che una resistenza di franchi tiratori all’attacco della macchina da guerra sionista, che era già la più potente di tutto il Medio Oriente. Questa disperata resistenza costò 14.813 vite umane. Quando la seconda fase della guerra del ’48 cominciò, i palestinesi erano già diventati, nella grande maggioranza, dei rifugiati.

Il piano dell’ONU per la spartizione della Palestina prevedeva uno Stato arabo sul 42,9% del territorio, con 725.000 arabi e 10.000 ebrei, e uno Stato a sovranità ebraica sul 56,5% del territorio, con 498.000 ebrei e 497.000 arabi. Gerusalemme veniva internazionalizzata con 105.000 arabi e 100.000 ebrei. Quasi tutte le terre coltivate ad agrumi, l’80% delle terre coltivate e grano e il 40% dell’industria condotta da palestinesi si sarebbero trovate all’interno delle frontiere dello Stato ebraico. Gaza avrebbe perduto le vie di comunicazione per il Neghev. Centinaia di villaggi si sarebbero trovati separati dalle terre comunali e dai pascoli, e lo Stato arabo avrebbe perduto ogni accesso diretto al Mar Rosso e ogni comunicazione diretta con la Siria. Era un piano che non teneva alcun conto delle realtà economiche, umane e sociali. Era difficilmente accettabile per gli arabi, ma ai palestinesi non fu lasciato il tempo per decidere. Il suo solo risultato fu quello di fornire ai sionisti un pretesto per l’azione. I sionisti non avevano in realtà alcuna intenzione di attenersi al piano dell’ONU agli arabi e al termine delle operazioni Israele si era impadronito di quattro quinti della Palestina. Poiché in Palestina la terra che era già di proprietà ebraica nel 1948 corrispondeva solo al 7,6% del territorio, il nuovo Stato “interamente ebraico” è sorto per circa il 90% su un territorio acquisito per diritto di conquista. Dei due Stati, uno non è mai nato.

I palestinesi costretti a fuggire nel 1948-1949 dall’area divenuta lo Stato ebraico furono circa 770.000; ma nei mesi e negli anni immediatamente successivi, fino al 1951, Israele compí ulteriori operazioni di espulsioni e i profughi divennero più di 1 milione. 363.689 si rifugiarono in Cisgiordania, 201.173 nella striscia di Gaza, 100.642 in Libano, 82.701 in Siria, 100.981 in Transgiordania. I restanti in Irak, Egitto e altri paesi. Chaim Weizmann, diventato capo dello Stato di Israele, dichiarò che la “fuga” dei palestinesi aveva costituito una “semplificazione miracolosa” dei compiti sionisti nella edificazione dello Stato “esclusivamente ebraico”. Ciò può dare un’idea dello spirito con cui fu affrontata l’espulsione della popolazione araba.

Il concetto di “proprietario assente”

Per questi documenti della tecnica sionista di “svuotamento” dalla popolazione araba dei territori destinati a diventare lo Stato “esclusivamente ebraico”, non vi è miglior commento delle parole di Ben Gurion, l’uomo che guidò i sionisti nella guerra di conquista: “se fossi un dirigente arabo, non firmerei mai la pace con Israele. E’ ovvio: abbiamo preso il loro paese. Ci era stato promesso da Dio, certo, ma perché ciò dovrebbe interessarli? Il nostro Dio non è il loro. E’ vero che siamo originari di Israele, ma è un fatto che risale a duemila anni fa. In che modo può riguardarli? Ci sono stati l’antisemitismo, il nazismo, Hitler, Auschwitz. Ma è stata forse colpa loro? Essi vedono una cosa sola: siamo venuti e abbiamo rubato la loro terra”. Per impedire il ritorno dei profughi, a Giaffa e Haifa decine di migliaia di immigrati sionisti si stabilirono subiti nei quartieri abbandonati. In seguito in tutte le altre città, come Lydda, Ramle, Acri, una popolazione ebraica sostituì quella araba. Per le 75.000 abitazioni e i 10.000 negozi espropriati fu escogitata una formula: “proprietario assente”.

Nei piani dell’Agenzia Ebraica era già presente nel 1941 un capitolo “trasferimento degli arabi”. Nell’aprile del 1948, il centro commerciale di Gerusalemme venne distrutto da un attacco sionista. Il 9 aprile 1948 gli uomini dell’Irgun e della Banda Stern attaccarono il villaggio di Deir Yassin massacrando 254 fra uomini, donne,vecchi e bambini palestinesi. Fu un massacro preordinato allo scopo di spargere il terrore. Quando la radio diffuse la notizia di questo atto barbaro, la popolazione araba terrificata comprese che non aveva alcun mezzo per proteggersi. Menahem Begin, all’epoca capo dell’Irgun (divenuto primo ministro di Israele nel ’80), dirà: “Il massacro non solo fu giustificato, ma non ci sarebbe stato Israele senza la vittoria di Deir Yassin”. Chi avrebbe potuto mai usare la parola “vittoria”?

1948: nasce infine lo Stato di Israele.

Ma sarà uno Stato senza pace, destinato a vivere nella guerra e per la guerra

Il 14 maggio 1948, l’Alto Commissario britannico sir Alan Cunningham lasciò Gerusalemme dichiarando terminato il mandato. Nel piano di spartizione dell’ONU era previsto che dopo la partenza degli inglesi, il potere fosse assunto provvisoriamente in Palestina per due mesi da una commissione delle Nazioni Unite, che avrebbe tracciato sul terreno i confini di ciascuno Stato e dato il tempo per preparare i rispettivi governi e le elezioni. Ma i sionisti non attesero l’ONU. Alle ore 0 e 1 minuto del 15 maggio 1948, ora palestinese, corrispondenti alle ore 6 e 1 minuto ora di Washington, l’esecutivo sionista presieduto da David Ben Gurion, riunito sotto il ritratto di Teodoro Herzl, a Tel Aviv, proclamò la fondazione dello Stato Ebraico di Israele. Il giuoco era fatto. Il riconoscimento americano avrebbe  bloccato ogni reazione. Dopo 52 anni da che Herzl aveva pubblicato “Lo Stato Ebraico”, il progetto era realizzato. Israele era divenuto una realtà, ma una realtà senza pace, nata dalla guerra e destinata a vivere nella guerra e per la guerra. E’ una verità indiscutibile che se l’Inghilterra  non avesse sostenuto per i suoi fini imperialistici il movimento sionista e incoraggiato l’immigrazione ebraica, non si sarebbe mai verificata l’opportunità di fondare uno Stato di Israele. Cosí come, se non ci fosse stato in seguito il sostegno degli Stati Uniti d’America, questa entità che raccoglie, su un territorio strappato con la forza a un popolo, uomini provenienti da 70 diversi paesi, non avrebbe mai potuto mantenersi fino ad oggi. Nelle fotografie: “Lo Stato di Israele è nato”, dice il titolo del “Palesatine Post”.

La prima guerra arabo-israeliana non fu un “miracolo militare”

Paralizzati soprattutto dalla propria debolezza e da una esagerata fiducia nella capacità dell’ONU di imporre ai sionisti le decisioni internazionali, gli stati arabi intervennero quando era troppo tardi per impedire la distruzione della comunità palestinese e la nascita di Israele. All’alba del 15 maggio 1948 le truppe di Siria, Libano, Irak, Giordania ed Egitto entrarono in Palestina. Ma l’esito della guerra era già scontato per la superiorità di addestramento, di comando e di esperienza di combattimento fatta durante il conflitto mondiale dagli israeliani, e per i rinforzi in uomini e armamento che questi poterono ricevere dall’esterno. Siria e Libano non avevano eserciti regolari. Irak ed Egitto disponevano solo di poche unità adatte al combattimento. L’esercito giordano era comandato da ufficiali inglesi che a metà del conflitto furono ritirati. Le forze arabe erano per lo più unità di volontari, coraggiosi ma male armati e peggio addestrati. Con una serie di offensive gli israeliani batterono separatamente tutti gli eserciti arabi. La vittoria di Israele non fu un “miracolo militare”.

L’esito della guerra fu che Israele stabilí il suo controllo anche su gran parte dei territori che l’ONU aveva riservato a un eventuale Stato arabo. L’unico settore in cui gli israeliani furono parzialmente sconfitti fu Gerusalemme: la città vecchia rimase sotto controllo arabo ancora per vent’anni, fino al 1967. La Giordania si attribuì la vallata occidentale del fiume Giordano (Cisgiordania), che non fu conquistato dagli israeliani. L’Egitto si prese la striscia di Gaza.

1956: Israele paga il debito

Proseguire l’espansione territoriale e dominare gli arabi con la forza. Questo era il programma del nuovo Stato di Israele che , appena sorto, dedicava il 40% del suo bilancio all’esercito. La seconda guerra arabo israeliana, scatenata dall’attacco israeliano sul Sinai il 29 ottobre 1956, è stata il corollario di questa dottrina. Una guerra conci Israele ha pagato il debito contratto dal sionismo con l’imperialismo europeo. Dietro all’attacco israeliano c’era un piano segreto concordato con l’Inghilterra e Francia: Israele ha fornito il pretesto a inglesi e francesi per impadronirsi del Canale di Suez. Ma l’obiettivo reale era rovesciare il regime rivoluzionario di Gamal Abdel Nasser che aveva nazionalizzato il Canale. L’avventura di Suez finí con la disfatta politica di Francia e Inghilterra, obbligate dalla pressione internazionale a ritirare le truppe; gli israeliani si ritirarono dal Sinai e Nasser non fu rovesciato. Ma Israele aveva mostrato la sua potenza militare e affermato il suo ruolo di gendarme del Medio Oriente.

Impedire il ritorno dei palestinesi era l’altro obiettivo della politica israeliana. In un solo anno, nel 1952, secondo dati americani, 394 palestinesi che tentavano di tornare sulla loro terra sono stati uccisi, 227 feriti e 2.595 catturati. Fra il 1948 e il 1956, decine di incursioni israeliane contro i campi di rifugiati ai bordi delle frontiere avevano seminato terrore e umiliazione fra gli arabi e alimentato il rancore contro Israele. Su questi sentimenti delle masse arabe si era sviluppato un radicalismo anti imperialista, sfociato nella rivoluzione egiziana. La politica di Nasser di intransigente difesa degli interessi nazionali contro la rapacità imperialista, culminata nella nazionalizzazione del Canale di Suez il 26 luglio 1956, suscitò l’entusiasmo popolare in tutto il mondo arabo. Nasser impiegala mano dura anche verso Israele, per costringerlo a trattative sul ritorno in Palestina dei profughi, chiudendo alle navi israeliane lo stretto di Tiran attraverso cui passavano i rifornimenti petroliferi di Israele. Inoltre sosteneva la guerra di indipendenza dell’Algeria contro la Francia e la lotta per l’indipendenza di Cipro contro l’Inghilterra. L’Egitto andava cosí imponendosi come Stato guida in funzione anti imperialista e dava impulso a un nazionalismo arabo minaccioso verso gli interessi occidentali. Di qui il tentativo di rovesciarlo con la spedizione di Suez.

1967, terza guerra arabo-israeliana: una guerra di conquista

Nella “guerra dei sei giorni”, fra il 5 e l’11 giugno 1967, Israele ha attaccato, uno dopo l’altro, Egitto, Giordania e Siria, e ha triplicato la sua estensione territoriale con l’occupazione di Gaza, del Sinai, della Cisgiordania, del Golan e di Gerusalemme est: la guerra doveva “bloccare gli arabi” almeno per un decennio e piegarli ad accettare lo Stato ebraico. In realtà le conquiste di Israele non hanno risolto il problema storico di fondo. Ma lo hanno aggravato. L’occupazione di Gerusalemme, sede dei luoghi santi musulmani, era un fatto che nessun arabo avrebbe accettato e che eternizzava il conflitto. L’occupazione della Cisgiordania e di Gaza ha portato sotto il dominio di Israele centinaio di migliaia di palestinesi profondamente ostili, che non si sarebbero mai sottomessi, e che la forte crescita demografica avrebbe trasformato in un problema sempre più grande e senza soluzione. L’occupazione di parte del territorio nazionale di Egitto e Siria rendeva fatale il riaccendersi dello scontro a breve scadenza. Nella “folgorante vittoria” c’era forse il germe della sconfitta.

1968:si presenta sulla scena il nuovo protagonista: l’OLP

Nella battaglia di Karameh, località di frontiera in territorio giordano, per la prima volta gli israeliani invasori sono stati sconfitti da forze armate palestinesi indipendenti. Cosí, il 21 marzo 1968, l’OLP ha fatto la sua inattesa entrata sulla scena del conflitto. Prima del 1967, la questione nazionale palestinese non era che uno dei motivi del conflitto fra paesi arabi e Israele. La vittoria di Karameh ha conferito all’OLP la funzione di strumento della liberazione quale espressione della volontà delle organizzazioni spontanee palestinesi di sottrarsi alla tutela dei paesi arabi e di contare solo sulle proprie forze. L’elezione di Yasser Arafat alla presidenza dell’OLP, il 1° febbraio 1969, ha dato impulso a quel processo di rinascita dell’unità e dell’identità nazionale che ha permesso ai palestinesi di superare i momenti difficili, riassorbendo nel quadro di una politica razionale i conati terroristici prodotto di disperazione, per giungere infine a una strategia avente come obiettivo prioritario di forzare Israele ad abbandonare i territori occupati.

Il settembre di sangue

Centinaia di migliaia di profughi palestinesi ostili alla politica filo occidentale di Re Hussein, costituivano ormai la maggioranza in Giordania. Concentrati per due terzi intorno alla capitale Amman, davano all’OLP una nuova forza. Ma se il monarca giordano vedeva nelle organizzazioni civili e militari dell’OLP un pericolo per il suo trono, Israele, gli Stati Uniti e i paesi arabi autocratici vedevano nel progressismo rivoluzionario palestinese un pericolo ancora maggiore. Per questo, l’OLP è divenuta l’obiettivo di un piano di annientamento, messo in atto nel settembre 1970, che ha preso il nome di “Settembre nero”. E’ stata una operazione concordata con incontri segreti fra USA, Israele e militari giordani filo occidentali. Con la protezione a distanza delle portaerei americane e delle forze corazzate israeliane, l’esercito della monarchia giordana attaccò i campi dei profughi palestinesi bombardandoli con cannoni da 155 e bombe al fosforo. Fu uno spaventoso massacro. La strenua resistenza dei Fedayn non potè impedire alle organizzazioni palestinesi di perdere le loro basi territoriali in Giordania.

L’esercito giordano mise in campo contro l’OLP 55.000

Uomini, 300 carri armati, aviazione e artiglieria pesante. IL cessate il fuoco fu firmato il 27 settembre 1970 al Cairo da Hussein e Arafat. L’OLP trasferì le sue forze superstiti in Libano.

1973: dalla quarta guerra nasce il primo shock petrolifero

6 anni soltanto dopo la guerra dei sei giorni, nel 1973, i paesi arabi uniti assumevano l’iniziativa e le truppe egiziane passavano di sorpresa, il 6 ottobre, il Canale di Suez, mentre  i siriani irrompevano nel Golan sfondando le linee israeliane. Era la “guerra del Kippur”, la quarta tra arabi e israeliani. Fra lo sbigottimento generale lo Stato Ebraico, a venticinque anni dalla fondazione, viveva le sue prime ore di disfatta e di ritirata. In seguito, la controffensiva israeliana ha ricondotto le linee alla situazione del 1967, meno che nel Sinai dove gli egiziani conservavano il controllo della riva orientale del Canale di Suez. Ma dopo 19 giorni di combattimento, il conflitto terminava con un esito incerto: nei fatti, Israele ha perso la guerra perché non l’ha vinta e i paesi arabi l’hanno vinta perché, per la prima volta, non l’hanno persa. Il mito della invincibilità israeliana era comunque sfatato. In questa guerra, la questione palestinese è rimasta solo sullo sfondo. La guerra si è trasformata in una sfida fra mondo arabo e occidente. A metà del conflitto i paesi arabi gettavano nella guerra il peso dell’arma del petrolio.

Decretando l’embargo petrolifero contro l’Europa e Stati Uniti,alleati di Israele, i paesi arabi levavano sull’Occidente lo spettro di una crisi irreversibile e di mutazioni dalle conseguenze imprevedibili. Israele cominciava a costare caro all’Occidente. Quattro guerre non erano servite a liquidare la resistenza palestinese; ma la mobilitazione popolare in favore dei fedayn era stata in compenso utilizzata per dare una base alla forza contrattuale della borghesia araba. L’esito reale della guerra del Kippur è stato l’aumento del prezzo del petrolio, l’instaurazione di nuovi equilibri in Medio Oriente, la riduzione del ruolo del “gendarme israeliano”, lo sviluppo di nuove alleanze e il passaggio dell’Egitto nel campo imperialista. La guerra del Kippur minacciò di trasformarsi in guerra nucleare. Secondo la rivista americana “Time”, il governo israeliano prese la decisione di armare i missili “Jericho 1” con testate nucleari. Alle richieste di aiuto egiziane, il governo sovietico decise di inviare dei missili ad Alessandria, e il 24 ottobre 1973, gli Stati Uniti misero le riserva strategiche in stato di allarme di terzo grado.

Lo Stato senza territorio

“Per i palestinesi, l’OLP è la patria, il futuro, il governo in esilio e lo Stato”. Di una nazione dispersa e senza territorio, ma una forza reale, che la posizione geografica al centro degli interessi mondiali mette in condizione di influenzare gli equilibri internazionali. Il riconoscimento che il mondo concede oggi all’OLP è la constatazione del peso che ha acquisito con la sua lotta. Vi sono più stati al mondo che riconoscono l’OLP (115) di quanti riconoscano Israele (87). L’OLP è membro a pieno titolo della conferenza islamica della Lega Araba e dei paesi “non allineati”. Fa parte, all’ONU, del “Gruppo dei 77”, che in realtà riunisce 120 paesi. Nell’ottobre 1974, l’assemblea generale dell’ONU, a schiacciante maggioranza, ha attribuito all’OLP lo status di “osservatore”. E’ dalla tribuna dell’assemblea generale dell’ONU che il 13 novembre 1974 Yasser Arafat, davanti a 2.000 delegati, ha lanciato al mondo e agli ebrei il messaggio dell’OLP: “offriamo la soluzione più generosa: vivere insieme in una Palestina democratica, nell’ambito di una giusta pace”.

La decisione delle Nazione Unite del 29 novembre 1947, che forní  un pretesto legale per la creazione dello Stato di Israele, sanciva nello stesso tempo l’esistenza di uno Stato palestinese. Israele fu ammesso come membro delle Nazioni Unite l’1 maggio 1949, ma alla condizione esplicita che applicasse le risoluzioni dell’Assemblea Generale dell’ONU, cosa che Israele non ha mai fatto. Per applicarle, Israele deve ritirarsi da due terzi del territorio su cui attualmente è insediato. Ma la politica israeliana va in direzione contraria e favorisce la colonizzazione ebraica dei territori occupati. Fra il 1967 e il 1985, sono sorti 21 nuovi insediamenti a Gerusalemme Est, 19 nella striscia di Gaza, 41 nelle alture del Golan e 127 in Cisgiordania. L’Organizzazione Sionista Mondiale ha pubblicato un piano di colonizzazione che arriva al 2010.

Basata per propria natura sul consenso popolate , l’OLP ha una struttura democratica. Il suo organo superiore è il Consiglio Nazionale, l’equivalente di un parlamento, nel quale sono rappresentate tutte le frazioni della resistenza, che sono una decina. La principale è Al Fatah, l’organizzazione fondata da Yasser Arafat. Il Comitato Esecutivo, di 15 membri, mette in atto la politica generale approvata da Consiglio Nazionale e opera attraverso una serie di dipartimenti equivalenti ai ministeri.Il dipartimento degli affari politici è il ministero degli esteri; il dipartimento del bilancio amministra i fondi dell’OLP che provengono dalle tasse pagate dai palestinesi che hanno attività e redditi e dai contributi dei paesi arabi, e compie investimenti in varia parti del mondo; il consiglio militare, che ha sede ad Aden, è ministero della guerra e stato maggiore generale ad un tempo; l’OLP ha un sistema scolastico con scuole di ogni ordine, un servizio medico con ospedali e ambulatori gestiti dalla Mezza Luna Rossa palestinese, un giornale, “Rivoluzione Palestinese”, una radio, “La voce della Palestina”, che trasmette da Algeri e da Bagdad, una agenzia di informazione, “Wafa”, con sede a Tunisi e a Nicosia, e un centro studi e ricerche, installato in Tunisi.      

Camp David: come se i palestinesi non esistessero

La svolta di Camp David nel 1978 ha dimostrato ai palestinesi che la soluzione dei loro problemi non sarebbe mai giunta dalle iniziative dei paesi arabi, ma avrebbe potuto venire unicamente dalla loro lotta. Gli accordi sottoscritti il 18 settembre 1978 a Camp David, negli USA, con la mediazione del presidente americano Carter, da Anuhar Sadat e Menahem Beghin (preludio alla pace separata fra Egitto e Israele firmata sei mesi più tardi), accettavano implicitamente la tesi israeliana che i palestinesi come popolo “non esistono”. Il popolo palestinese era ridotto a un fenomeno di rifugiati senza identità e senza diritto all’autodeterminazione. La restituzione del Sinai all’Egitto fu il prezzo pagato da Israele per conservare la Cisgiordania e la striscia di Gaza, che divennero cosí due “bantustan” assediati. Tuttavia, gli accordi segnarono un cedimento completo a Israele: il Sinai sarebbe stato smilitarizzato, in modo da consentire di rioccuparlo in caso di guerra; i pozzi petroliferi del Sinai tornavano agli egiziani ma con l’obbligo di vendere il petrolio a Israele. Per contropartita, Israele ottenne il riconoscimento dello Stato ebraico, cioè il massimo. Camp David sancí il passaggio definitivo dell’Egitto nell’orbita statunitense e il trionfo della strategia americana, consistente nel rompere la solidarietà dei paesi arabi del “campo di battaglia”, confinanti con Israele, isolandosi dallo Stato militarmente più forte e più popoloso, l’Egitto. Gli americani calcolavano che gli altri Stati arabi avrebbero finito per seguire l0’esempio egiziano. Ma cosí non fu.

La capacità dell’OLP e della resistenza palestinese di continuare la lotta fu grossolanamente sottovalutata da americani e israeliani. Dopo Camp David, l’OLP fissava nel seguente modo le linee della propria strategia futura: “Sappiamo di non poter battere l’esercito israeliano. Ma possiamo annullare i piani sionisti. Possiamo toglier loro la sensazione di vivere in una nazione normale ed in pace. Si accorgeranno di non avere sicurezza, che nulla è ancora finito. Li stancheremo, li costringeremo alla repressione nei territori occupati, porteremo la nostra gente alla non collaborazione, poi alle dimostrazioni, e infine all’aperta disobbedienza e alla resistenza. Mineremo la situazione internazionale di Israele, spingeremo il mondo a domandarsi: “perché tutto questo?” Gli israeliani arriveranno al punto di rendersi conto che per essi è impossibile non intendersi con noi. A quindici anni di distanza, oggi la rivolta delle pietre mostra che la situazione preconizzata dall’OLP come obiettivo della sua politica è raggiunta.

1982: il “diritto di invasione”

“Pace in Galilea” è stata chiamata l’invasione israeliana del Libano: 22.085 morti e 30.302 feriti, 9.720 edifici distrutti, migliaia di “scomparsi”. L’inchiostro della firma dell’accordo di Camp David che lasciava l’OLP sola di fronte a Israele era ancora fresco quando nel 1980 Menahem Beghin aveva annunciato il “diritto” di Israele a intervenire in Libano “in qualsiasi momento”. L’invasione non era che una questione di tempo. Il 5 giugno 1982, forze corazzate, artiglieria, aviazione, paracadutisti e truppe da sbarco israeliane, 120.000 uomini, entravano in Libano con quattro obiettivi: primo, distruggere fisicamente la struttura militare dell’OLP; secondo, annientare materialmente l’organizzazione civile impiantata dall’OLP fra i 500.000 rifugiati palestinesi presenti in Libano, embrione di una società palestinese autosufficiente, istruita, politicamente evoluta: un sistema scolastico dall’asilo nido all’università, un sistema di assistenza sociale capillare, cliniche, ospedali, trasporti, radio, giornali, organismi economici e finanziari; terzo, respingere verso il nord e verso la Siria la maggior parte dei palestinesi; quattro, instaurare a Beiruth un governo di falangisti in grado di imporre e mantenere la “pax israeliana”. In Beiruth assediata, 7.000 combattenti dell’OLP affiancati da forze libanesi progressiste tennero in scacco per 79 giorni l’enorme macchina da guerra israeliana. I militari dell’OLP lasciarono infine Beiruth con la garanzia di una forza internazionale, ma si imbarcarono armati e inquadrati come un esercito regolare. “Il popolo che non esiste” aveva ottenuto dall’umanità intera l’onore delle armi.

L’avventura politica dei generali israeliani terminò con un sostanziale fallimento. Nessuno degli obiettivi politici dell’invasione venne raggiunto. La forza militare dell’OLP non fu annientata, la popolazione palestinese non venne espulsa che in piccola parte, e attraverso il governo falangisti a Beiruth Israele non ottenne alcun controllo del Libano, ne una supremazia reale. L’OLP guadagnò invece molti amici. La perdita della base territoriale dell’OLP in Libano è stata solo temporanea. Il computo delle perdite umane e materiali prodotte dall’invasione israeliana è ancor oggi difficile. Nel solo Libano meridionale, dove l’avanzata israeliana incontrò una tenace resistenza, dei 92.000 rifugiati palestinesi che vi vivevano, 60.000 rimasero senza tetto. L’accanimento delle truppe israeliane si spiega con il fatto che una società palestinese autosufficiente, istruita, politicamente organizzata, embrione del futuro Stato, è considerata da Israele una minaccia peggiore di tutta la potenza degli Stati arabi messa insieme. Secondo un bilancio reso pubblico dalla polizia libanese, fra il 4 giugno e il 31 agosto 1982 l’invasione israeliana ha prodotto 19.085 morti, di cui 6.775 a Beiruth e 12.310 nel resto del Libano e 30.302 feriti e mutilati. L’84% delle persone uccise erano dei civili, dei quali il 33% avevano meno di 15 anni e il 24% più di 50. Secondo lo stesso rapporto, a seguito dell’assedio israeliano a Beiruth ovest, 2.224 edifici sono stati interamente distrutti, 4.733 gravemente danneggiati e 2.770 parzialmente. Al 20 ottobre 1982, vi erano fra i 3.000 e i 7.000 “scomparsi”. All’evacuazione dei combattimenti palestinesi da Beiruth si arrivò con una “mediazione” americana. Il 21 agosto giunsero in Libano i militari e della forza internazionale che si interposero fra israeliani e palestinesi. Nei giorni seguenti i reparti palestinesi, conservando le loro armi, si imbarcarono per diverse destinazioni. Il 13 settembre, inspiegabilmente, i contingenti internazionali furono ritirati e il 15 settembre le truppe israeliane, in violazione degli accordi, entrarono in Beiruth ovest ormai sgombra di difensori, dove era rimasta solo la popolazione civile palestinese. Il 16 settembre si verificò la strage di Sabra e Chatila. Al conto dei morti occorre aggiungere questi ultimi: forse 3.000.

Il dilemma cui si trovarono di fronte i combattenti palestinesi a Beiruth fu il seguente: capitolare avrebbe significato la sparizione politica e militare della resistenza per un periodo difficile a misurarsi in anticipo; accettare la battaglia significava, dopo una resistenza la più lunga possibile, soccombere, e quasi certamente, per i più, il sacrificio supremo. La scelta dell’OLP fu per la lotta ad oltranza. Dal suo rifugio in Beiruth assediata, Arafat si rivolse ai paesi “non allineati”, di cui l’OLP fa parte, per una iniziativa che scuotesse il mondo dalla sua indifferenza. I delegati di 64 paesi si riunirono in sessione straordinaria a Nicosia, a metà luglio. Il comunicato finale, reso pubblico il 18 luglio 1982, sottolineava che il sostegno massiccio ricevuto da Israele sul piano militare, finanziario e politico dagli Stati Uniti aveva reso possibile l’invasione israeliana, e chiedeva la mobilitazione dei popoli di tutto il mondo per fermare il massacro. Nella battaglia di Beiruth i fedayn impiegarono l’esperienza fatta nel corso della guerra civile libanese del 1975-76, che li rendeva nettamente superiori agli israeliani nel combattimento casa per casa. Tale superiorità esponeva gli israeliani in attacco a perdite enormi.Lo stato maggiore israeliano attuò perciò un assedio di tipo medioevale con armi del 2000, sottoponendo indiscriminatamente la città a un fuoco d’inferno da distanza. La mobilitazione dell’opinione pubblica mondiale impose la mediazione internazionale per il cessate il fuoco. I generali israeliani hanno ammesso di essere stati sconfitti dai palestinesi in Libano.

Il massacro di Sabra e Chatila: al di là dell’orrore

L’assedio di Beiruth era già terminato quando 400 carnefici scelti fra il fior fiore del falangismo libanese, furono introdotti nei campi di Sabra e Chatila, sorvegliati dalle truppe di Israele. Tra le ore 17 del 16 settembre e le ore 10 del 19 settembre 1982, essi compirono il più barbaro dei massacri. 2.000 cadaveri furono identificati al termine della carneficina, ma centinaia di corpi erano stati seppelliti in fosse comuni scavate con i bulldozer. Si calcola che le vittime siano state più di 3.000. Si è trattato di una operazione politica premeditata ispirata dalla fredda volontà di seminare il panico fra i palestinesi, con torture prima dell’assassinio, mutilazioni, dinamitaggio di case con gli abitanti chiusi dentro, fucilazioni di intere famiglie, meno un superstite lasciato vivo perché potesse raccontare. Secondo il giornalista israeliano Amnon Kapeliouk c’era stato un ordine ai comandanti dell’invasione di “espellere i palestinesi verso le linee siriane e non permettere loro di tornare”. Ma l’esodo previsto non si era prodotto. Galvanizzata dalla resistenza dei fedayn in Beiruth, la popolazione palestinese era rimasta sul posto in qualsiasi condizione. Uno dei falangisti assassini intervistato alla televisione israeliana ha dichiarato: “Bisognava fare un Deir Yassin per espellere i palestinesi”. Venendo dopo l’assedio di Beiruth in cui la popolazione libanese e palestinese era stata schiacciata sotto 200.000 tonnellate di bombe israeliane di ogni tipo, il massacro di Sabra e Chatila ha condotto infine l’opinione pubblica internazionale ad aprire gli occhi sul lungo martirio del popolo palestinese. Le inchieste internazionali hanno assodato la responsabilità oggettiva dei governanti israeliani e la complicità diretta di alcuni ufficiali. L’inchiesta giudiziaria in Israele ha dichiarato Beghin “moralmente responsabile” dell’eccidio.

Il nuovo popolo errante: cinque milioni di profughi

I palestinesi nel mondo sono più di 5 milioni, di cui il 60% vive in esilio e il 40% nei territori occupati da Israele. Siamo alla terza generazione di rifugiati. La quarta sta nascendo. Due terzi sono nati dopo l’esodo nei miserabili campi di sopravvivenza. Un terzo ha meno di 15 anni. E’ una intera società che quarant’anni fa viveva unita sul suo territorio, che è stata disintegrata e dispersa con la violenza e che, ciononostante, mantiene e difende la propria identità nazionale, culturale e politica. Questa enorme massa di rifugiati inassimilabili, che vivono in stato di precarietà e insicurezza, dispersa in più di 20 paesi, costituisce un enorme problema per il mondo intero, un problema che si è ingigantito nel corso dei decenni e che procede verso quella dimensione in cui vi saranno solo soluzioni traumatiche. In realtà è un problema artificiale, che nessuna fatalità storica giustifica, un problema creato dal niente cent’anni fa sulla base di un disegno politico concepito a tavolini da intellettuali che in gran parte non avevano neppure mai visti la Palestina.

La tragica aritmetica della dispersione del popolo palestinese è nelle seguenti cifre: nella Cisgiordania occupata ne vivono 1.090.000; nella striscia di Gaza 650.000. Qui la densità è di 1.600 abitanti per chilometro quadrato, fra le più alte del mondo. Entro i confini di Israele vivono altri 750.000 arabi, nominalmente cittadini israeliani, ma di categoria inferiore, discriminati per l’alloggio, l’impiego, l’educazione, la proprietà della terra, l’assistenza sociale e il servizio militare,. In Giordania i rifugiati palestinesi sono 1.200.000, in Libano 490.000, in Siria 230.000, in Arabia Saudita 140.000, nel Kuwait 300.000, in Irak 20.000, nell’Oman 48.000, nel Quasar 25.000, negli Emirati Arabi Uniti 37.000, in Egitto 49.000, in Libia 25.000. Negli Stati Uniti vi sono 100.000 palestinesi. Altri 200.000 sono sparsi in vari paesi del mondo. L’ONU ne assiste solo 2.100.000, cioè quelli che vivono in Cisgiordania, Gaza, Libano, Siria e Giordania. Il calcolo sionista al momento dell’espulsione prevedeva che i rifugiati sarebbero stati gradualmente assimilati negli strati sociali inferiori dei paesi arabi e che perciò non avrebbero costituito un problema politico. Un calcolo quanto mai errato.

La sterile logica dei RAIDS

Parlando delle “sfide di Israele negli anni ‘80” il generale Sharon ha dichiarato: “La sfera degli interessi militari di Israele si estende al di là del mondo arabo e ingloba paesi quali la Turchia, l?Iran e il Pakistan, fini all’Africa del nord e all’Africa centrale”. Yitshak Rabin, ministri della difesa di Israele, ha detto: “nessun elemento dell’OLP può pretendere l’immunità. Ovunque si trovi, il lungo braccio dell’esercito israeliano può raggiungerlo”. I generali israeliani si arrogano dunque in “diritto” di violare qualsiasi sovranità e colpire qualunque paese. Sulla base di tale “dottrina”, Israele ha bombardato l’Irak, invaso il Libano, rapito a Roma. Nell’ottobre 1985 l’aviazione israeliana ha bombardato, a 2.500 chilometri dalle proprie basi, il quartier generale dell’OLP nella periferia meridionale di Tunisi. Gli israeliani non sono riusciti a uccidere Arafat ma hanno provocato 68 morti e 100 feriti. Nell’aprile 1988, un reparto speciale israeliano è sbarcato segretamente sulla costa tunisina per assassinare Abu Iyad, il secondo dirigente dell’OLP. E’ la logica dei “falchi”.

Il 1° ottobre 1985 gli aerei israeliani, sei F15 e F16 di fabbricazione americana, riforniti in volo, attaccarono con missili aria-terra e bombe a guida laser, il quartier generale dell’OLP e la residenza privata di Yasser Arafat a Hammam Chatt. La distruzione fu totale. Dei 68 morti, 54 erano palestinesi, i restanti erano cittadini tunisini. In Tunisia non vi erano che poche centinaia di fedayn, disarmati. Arafat, che non si trovava sul posto al momento del bombardamento, si salvò. I raids di Israele costituiscono un problema che investe tutto il mondo. Si tratta, in ultima analisi, della continuazione implacabile della politica di espulsione dei palestinesi dalla loro terra, basata sul rifiuto del diritto internazionale. Israele non  tiene conto neppure delle risoluzioni di condanna dell’ONU. La responsabilità di tutto ciò incombe su chi ha fatto dei governanti di Israele l’incarnazione di uno Stato al di sopra degli altri, cui tutto è permesso.

Il 16 aprile 1988 viene assassinato, nella sua abitazione privata di Sidi Bou Said presso Tunisi, Abu Iyad (in arabo “padre della guerra santa”), considerato il principale collaboratore di Yasser Arafat. Era il responsabile politico della “rivolta delle pietre” in Cisgiordania e Gaza. Sul corpo di Abu Iyad sono stati trovati 60 proiettili di mitra: una esecuzione feroce. E’ stato sepolto nel cimitero degli eroi palestinesi nel campo di Armouk, in Giordania.

1987: la generazione nata nell’occupazione lancia la sfida della rivolta di lunga durata

Il 1987 è stato un anno pieno di anniversari in Palestina: i 70 anni dalla “dichiarazione Balfour” che aveva sancito l’appoggio inglese allo stato sionista, i 40 anni dal piano di spartizione dell’ONU, i 25 anni dall’occupazione della Cisgiordania e dalla striscia di Gaza, i 5 anni dall’invasione del Libano, dall’assedio di Beiruth e dal massacro di Sabra e Chatila. I generali israeliani celebravano le loro vittorie; allontanati i fedayn, sembrava non esservi più alcun nemico alle frontiere di Israele. I “falchi” israeliani avevano cosí messo in atto la loro ultima strategia: chiudere tutte le porte davanti all’OLP, seminare la disperazione dell’impotenza tra i palestinesi, con bombardamenti e raids, per rigettare la resistenza palestinese nella trappola del terrorismo cieco che l’avrebbe esclusa dalla lotta politica e diplomatica, e dalle trattative di pace. Ma c’era una lezione della storia che il sionismo non aveva compreso: formatosi nell’epoca dei nazionalismi europei, di cui esso stesso è stato un prodotto, ma divenuto una realtà politica solo nell’epoca della decolonizzazione, il sionismo è un colonialismo tardivo, fuori dalla storia. La coscienza mondiale non accetta più le conquiste. I popoli oppressi difendono la loro identità e lottano per la loro identità e lottano per la loro indipendenza. Questa è la forza che ha spinto i ragazzi delle generazioni nate sotto l’occupazione a uscire dai tuguri dei “campi” per lanciare agli occupati la sfida della sollevazione di lunga durata. Uccisi un po’ per giorno tutti i giorni, indifferenti di fronte al sacrificio, armati solo di pietre, hanno inchiodato la macchina da guerra sionista a una funzione di repressione terroristica. I termini strategici del conflitto sono stati quindi rovesciati.

Il 75% degli abitanti attuali della Cisgiordania e della striscia di Gaza sono nati e cresciuti sotto l’occupazione israeliana. Secondo la Croce Rossa nei 20 anni fra il 1967 e il 1987 gli israeliani avevano effettuato in Cisgiordania e a Gaza oltre 500.000 arresti e distrutto 15.365 case di famiglie accusate di avere qualche membro coinvolto in atti di resistenza. Due terzi dei sindacalisti erano stati messi in carcere o confinati nello stesso periodo. Due terzi degli studenti maschi dell’università di Bir Zeit avevano subito pene detentive e l’università era stata chiusa 14 volte per un totale di 615 giorni prima dell’inizio della sollevazione, il 9 dicembre 1987. La gioventù palestinese s’è trovata dunque fin dalla nascita “iscritta” alla resistenza dalla stessa politica israeliana del “pugno di ferro”.

L’attuale rivolta riprende in gran parte forme di organizzazione sperimentate nella “grande rivolta” del 1936- 1939 e ne ha creato di nuove. In ogni quartiere, in ogni villaggio, anche il più isolato, sono nati i comitati popolari locali, che dirigono la lotta sul posto. In molte località la popolazione ha sbarrato le vie di accesso all’abitato, ha rifiutato di recarsi al lavoro in Israele, e proclamato i paesi “zona palestinese autonoma”. Ciò ha provocato il sistematico intervento dell’esercito israeliano per arrestare in massa i comitati e presidiare militarmente. I comitati decidono gli scioperi, fissano gli orari di apertura e di chiusura dei negozi, organizzano l’aiuto alle famiglie delle vittime della repressione, dei feriti e dei caduti e a quelle più bisognose. Durante le manifestazioni, medici e infermieri sono mobilitati. I comitati si occupano perfino di compensare nei limiti del possibile le perdite subite dai commercianti; questi ad esempio, durante gli scioperi, sono esentati dal pagare l’affitto del locali.

La macchina da guerra resa impotente da una gioventù indomabile armata solo di pietre

Da quarant’anni Israele aveva impostato la sua strategia di sopravvivenza su un esercito dotato di enorme capacità offensiva, concepito per rompere l”accerchiamento” dei paesi arabi e annullare le minacce esterne. La sollevazione popolare ha posto invece i dirigenti israeliani di fronte alla constatazione che la forza capace di dare, alla distanza, la vittoria agli sconfitti, si trovava all’interno e non all’esterno. Anche in Israele c’era chi, come il professor Yechayahou Leibovitz dell’università ebraica di Gerusalemme, aveva previsto che consacrando tutte le proprie forze alla dominazione dei palestinesi, lo Stato di Israele sarebbe divenuto “una mostruosità”. Oggi l’esercito israeliano, impiegato in una spietata repressione contro un popolo che si difende coi sassi, viene a trovarsi in una posizione di inferiorità morale rispetto alla gioventù palestinese. L’inferiorità morale è la condizione che può distruggere lo Stato sionista. Per dirla con le parole dello scrittore israeliano Boaz Evron “Israele si trova nelle condizioni de eterno mendicante, che vive a carico del mondo intero; non basta a se stesso, ne per il suo peso politico, ne per la sua potenza economica e militare (potenza militare che è sostenuta dall’aiuto esterno); sullo scacchiere mondiale lo Stato di Israele vive sul suo capitale di “sei milioni di vittime”, vive delle antiche sofferenze, del passato non del presente e dell’avvenire”. La strenua lotta dei ragazzi fedayn (in arabo “pronti al sacrificio”) in Cisgiordania, a Gaza, a Gerusalemme, forza le masse europee e americane a prendere posizione. Che ne sarebbero di Israele se dovesse perdere il sostegno degli Stati Uniti e dei paesi europei ?

La rivolta si alimenta anche delle dure condizioni della dominazione israeliana. Ad esempio, mentre i coloni sionisti possono scavare pozzi fino a 700 metri di profondità, l’ordine militare numero 92 emesso nel 1967 limita la profondità dei pozzi dei palestinesi a 100 metri. La “pax israeliana” in Cisgiordania è basata sulla combinazione di qualcosa come 2.000 decreti militari, cui si aggiungono le leggi preesistenti. Cosí le deportazioni e gli internamenti senza processo son giustificati dagli israeliani sulla base delle leggi promulgate dagli inglesi negli anni del mandato, mentre i sindacati sono tenuti “sotto controllo” ricorrendo a leggi giordane o egiziane precedenti all’occupazione israeliana. Le requisizioni di terre di proprietà pubblica sono basate sull’argomentazione che Israele ha ereditato le proprietà dell’impero ottomano.

L’uso delle pietre, munizioni di cui esiste una inesauribile riserva nella sassosa Cisgiordania e a Gaza, come unica arma della rivolta, è una specifica scelta politica. Disposizioni severissime date dal “comando nazionale” dei comitati popolari locali proibiscono agli insorti l’uso di armi da fuoco, anche qualora esistessero, pur di fronte alle provocazioni e alle brutalità più gravi dell’esercito israeliano. Questa strategia basata su migliaia e migliaia di atti di sprezzo del pericolo, a costo di centinaia di morti e migliaia di feriti, non sarebbe praticabile senza un’infinita capacità di sacrificio negli insorti. Gli osservatori internazionali mettono in evidenza che il coraggio dei giovani palestinesi, nella continuità della loro azione, costituisce il fattore che cambia i termini della situazione. Tutti i metodi utilizzati dagli israeliani per venire a capo degli insorti si sono rivelati inefficaci. A nulla sono serviti il coprifuoco, le leggi eccezionali combinate con un blocco economico parziale, la concentrazione di forze militari imponenti, e neppure l’ordine impartito ai soldati di “spaccare le ossa”.

Il fattore tempo

C’è una bomba a scoppio ritardato sospesa sullo Stato ebraico. Nessuno potrà disinnescarla. E’ la bomba demografica. La metà dei palestinesi ha oggi meno di vent’anni. Fra qualche anno la crescita demografica si trasformerà in una esplosione incontenibile. La famiglia media palestinese nei territori occupati conta 6,4 membri; fra i rifugiati in Giordania la media sale a 7,9. All’inverso, la popolazione ebraica in Israele ha quasi cessato di aumentare. Il tasso di fertilità della popolazione araba è quasi il doppio di quella ebrea: 4,6% contro 2,8%. L’avvenire è nelle cifre. Il bambino palestinese che cresce nel contesto della dominazione israeliana è integrato dalla nascita nella dinamica della rivendicazione di libertà assieme alla sua famiglia, che subisce una repressione che non risparmia nessuno. In Palestina nasceranno sempre più fedayn di quanti gli Israeliani possano sotterrarne. La politica di repressione non ha sbocchi. Se anche questa sollevazione fosse soffocata, vi sono già premesse per una. Due, tre sollevazioni future, per una lotta senza fine.

Per la prima volta da più di duemila anni. Nel 1985 gli arabi che abitano la riva meridionale del Mediterraneo hanno superato la popolazione europea della riva settentrionale. Lo scarto è destinato ad aumentare nel futuro: secondo le proiezioni demografiche dell’ONU, entro 15 anni, nel 2000, avremo 270 milioni di abitanti sulla riva islamica e 200 su quella settentrionale a prevalenza cristiana. Nel 2020, avremo i 200 milioni di abitanti del Mediterraneo europeo rimarranno stazionari, ma ne avremo ben 370 milioni sulla riva meridionale. Quale sarà il mondo arabo di domani possiamo intravederlo già oggi. Questi ragazzi impavidi che ne sono l’avanguardia, ce lo indicano. Il problema palestinese non è più un problema unicamente israeliano, ne unicamente palestinese. E’ un problema di tutti noi.

La forza delle madri coraggio

Nelle precedenti rivolte (1981, 1982, 1986), soprattutto i giovani e i giovanissimi erano in prima linea. Oggi, tutti gli strati della popolazione palestinesi sono in strada. In testa le donne. Centinaia di comitati di donne nei territori occupati svolgono un ruolo politico decisivo. Sono le donne che hanno pagato il tributo di sofferenza più elevato nella lotta. Ora si battono perché il sacrificio dei figli e dei mariti non sia stato inutile. Sono la colonna vertebrale, psicologica e morale, del movimento: forniscono una rete di supporto vitale per la sollevazione: organizzano il lavoro volontario, il sostegno alle famiglie dei caduti e dei prigionieri, il soccorso medico sul campo ai feriti dalle bastonature, dai proiettili, agli intossicati dai gas lacrimogeni, affrontano fisicamente i soldati israeliani quando questi effettuano arresti di adolescenti, o quando dinamitano case, o sradicano per rappresaglia gli alberi di oliva. La forza organizzata delle donne è il fattore imprevisto che sconvolge tutti i calcoli degli occupanti, la ragione prima della lunga continuità della rivolta.

Prima del 9 dicembre 1987, giorno d’inizio della “intifadah” (sollevazione in arabo), vi erano già nelle carceri israeliane 4.500 prigionieri per atti di resistenza. Solo nei primi nove mesi della sollevazione, gli israeliani hanno fatto altri 18.000 arresti. Su 1.750.000 palestinesi che si trovano sotto occupazione, 1 milione vivono in campi profughi, stipati fino a 8 persone per stanza. Sono rarissimi i casi di palestinesi che cedono alla tentazione dell’emigrazione. L’ordine è “resistere”.

Condannati ad assediare

Per questa sporca guerra, non esiste una soluzione puramente militare. L’alternativa per gli israeliani è: o una soluzione politica, o l’assedio permanente agli 8 campi palestinesi della striscia di Gaza, ai 20 della Cisgiordania, a 450 villaggi e a una decina di città. Per una simile guerra contro una intera popolazione civile, che dispiega una immensa  energia ma è militarmente inerme, Israele deve mantenere mobilitati in permanenza effettivi enormi di tutte le armi. Anche i militari delle unità missilistiche fanno i turni come “bastonatori” nei territori occupati. Ma l’esercito israeliano è costituito da riservisti che fanno il soldato un mese l’anno. Dunque è tutta la popolazione israeliana che a rotazione viene coinvolta nella repressione. La sporca guerra si è trasformata nello scontro diretto di tutta una popolazione armata contro tutta una popolazione disarmata: una “mostruosità”. L’umanità intera chiede la fine di questa mostruosità. Il movimento popolare spontaneo ha ratificato la rappresentatività dell’OLP. Non esiste che una soluzione: LA LIBERTA’ PER I  PALESTINESI

di Filippo Gaja    settembre 1987