La violenza in Palestina è una presenza quotidiana, ma di Gaza in particolare sembra ci si ricordi solo durante i “picchi”, le “escalation”. Questo significa forse che esiste un “limite” di violenza accettabile al quale ci si è ormai abituati e, se esiste, è possibile quantificare questo limite? Quale può essere il massimo di violenza al quale ci si abitua, ma soprattutto, esiste un minimo sopportabile?
Nel tentativo di quantificare l’abitudine alla violenza, riporto alcuni degli eventi accaduti nell’ultima settimana in Palestina.
Omar Badawi era disarmato. È stato ammazzato da un soldato israeliano a sangue freddo, per strada. Perché il militare ha sparato? Nel video e nelle foto non si percepiscono momenti di tensione o collutazione, dunque l’abuso dell’arma rientra all’interno del limite minimo accettabile di violenza.
Moath Amarneh è un giornalista palestinese che ha perso un occhio dopo essere stato colpito dal fuoco israeliano. Non è morto, ma forse anche questo rientra nel limite minimo di violenza sopportabile. Inoltre, anche le proteste in solidarietà con Moath che si sono succedute in questi giorni sono state represse con la violenza in Cisgiordania. Si è abituati anche a questo.
Ci spostiamo su Gaza. Bahaa Abu al-Ata è stato ucciso in quanto esponente del Jihad Islami, movimento di resistenza palestinese. Per l’esercito israeliano è stato un omicidio “mirato” (targeted killing, in gergo), peccato poi nel mezzo ci sia finita anche la moglie e l’offensiva israeliana su Gaza che ne è succeduta si sia risolta (per adesso) con 34 vittime civili tra cui 8 bambini e 3 donne. Tutti obiettivi “mirati” anche questi.
La popolazione della Striscia di Gaza, però, è perennemente sotto attacco e la Marcia del Ritorno, per quanto ormai dimenticata, è andata avanti per più di un anno e mezzo (marzo 2018) per reclamare la fine dell’assedio israeliano che l’ha resa nel tempo “la più grande prigione a cielo aperto”. Oltre 300 le vittime palestinesi. Cifre normali.
Il 17 novembre, la polizia israeliana ha sparato e ucciso un giovane palestinese nei pressi di Gerusalemme, giustificando il fatto con il furto di un’auto e la fuga del malcapitato. Una motivazione ancora valida e all’interno dei limiti per giustificare l’utilizzo della forza.
Si è parlato tanto di deumanizzazione dei palestinesi da parte israeliana; si è parlato del lavaggio del cervello di gran parte della popolazione israeliana che pare tenuta all’oscuro di ciò che avviene fuori dei propri cortili e chi invece guarda oltre e prende una posizione pare, ai nostri occhi, essere una esigua minoranza illuminata.
Si è parlato di un sistema coloniale di insediamento che brama per avere sempre più spazi, eliminando la popolazione nativa. Si è parlato di furto di storia e di cultura, oltre che di geografia. Si è parlato di eliminazione della popolazione nativa con modi diversi, di cui quelli violenti sono solo quelli più visibili.
Non so più adesso quanto possa aver senso continuare nella ricerca di spiegazioni scientifiche, logiche e lineari che, in momenti di sconforto di fronte a questa tragedia umana, ben poco possono fare per dare una speranza. Allo stesso tempo, per evitare di cadere nell’indifferenza dell’abitudine, mi sono costretta a guardarla e riguardarla, l’immagine di Omar, a terra in un bagno di sangue, volendo trovarci ancora una volta un significato politico. E ciò che di politico ho trovato è stata la rappresentazione della resistenza. In quell’immagine e negli ultimi istanti di vita di Omar è racchiuso il senso di una frase che troppo spesso viene citata come un semplice slogan: “esistere è resistere”. Esistere è sì resistere in Palestina, quando si è ben consci di poter morire per la follia omicida conseguente al processo di deumanizzazione. Esistere è resistere quando si muore all’improvviso perché per qualcuno puntare un’arma contro un essere umano è normale (e, talvolta, motivo di vanto). Esistere è resistere anche quando la resistenza trova compimento nella morte e la sopravvivenza rimane una sfida quotidiana. Così in Cisgiordania, così a Gaza.
La violenza sui palestinesi assume un carattere ancora più politico, come strumento con cui i politici israeliani misurano e controllano la propria soglia di gradimento tra la popolazione e gestiscono le sfide interne per rimanere al potere, in un momento come quello attuale di forte crisi. Situazione già peraltro prevista a settembre in un illuminante articolo del giornalista palestinese Ramzi Baroud. Violenza come scelta politica, insomma, tanto che neppure i giornali israeliani tentano più di negare questa relazione; ma allo stesso tempo non sembra poi così strategicamente utile. Alcuni esperti analisti di parte israeliana non sono convinti che Israele abbia intenzione di arrivare a una ulteriore escalation su Gaza come, per esempio, quelle del 2008, o del 2012 o ancora del 2014. Tutti attacchi poi terminati allo stesso modo: con nessun vincitore ma solo una tregua apparente e, lo si vede ancora, estremamente labile. Come se questo livello di violenza dovesse rimanere stabile e costante, e il clima(x) di violenza servisse solo come dimostrazione di forza e non per cambiare la struttura (e la stortura) del sistema di occupazione, rimandandone, ancora per chissà quanto, la giusta soluzione.
Insomma, le destre si fronteggiano in questi giorni in Israele a colpi di violenza sui palestinesi e le accuse di “debolezza” (quelle che spesso sono state rivolte a Netanyahu dal suo rivale Gantz), vengono prese come una sfida a colpire ancora più forte sulla popolazione civile.
Sono ancora piene di valore e significato le parole “Restiamo Umani”; ma proviamo a restare anche “politici”; perché se è vero che alla dis-umanità si rischia di abituarsi, i recenti fatti dal Libano all’Iraq dimostrano come presto o tardi si finisce col ribellarsi al vuoto lasciato da una politica escludente e affarista.
A.
Immagina di copertina di Mariam Mohammad