“I prigionieri stanno combattendo da soli, la gente li sostenga”
di Emma Mancini
“In questo momento siamo al quendicesimo giorno di sciopero (sabato 11 ottobre, ndr), oltre 352 ore senza mangiare”. Murad Jadalah, ricercatore legale dell’associazione palestinese Addameer, spiega all’Alternative Information Center ragioni e obiettivi dello sciopero della fame che i prigionieri palestinesi hanno iniziato il 27 settembre.
“Il motivo per cui i prigionieri hanno deciso di cominciare questa forma di protesta – spiega Murad – è che è questo è l’unico modo per fare pressioni sulle autorità israeliane, in un momento in cui hanno gli occhi del mondo addosso. La società civile, la gente sono scese in piazza per il discorso all’Onu di Abu Mazen, ma nessuno sta combattendo per chi è in prima linea contro l’occupazione: i seimila prigionieri politici palestinesi nelle carceri israeliane”.
I prigionieri politici, anche da dietro le sbarre, continuano la loro resistenza contro l’occupazione: “Si tratta di un movimento sociale attivo. Chi è che combatte contro l’apartheid israeliana? Non le manifestazioni del venerdì, non quelle a Gaza, che non toccano Israele. L’unica vera lotta è quella dei prigionieri politici”.
Che riprendono in mano un vecchio strumento che a intervalli più o meno regolari torna a infiammare le carceri: lo sciopero della fame. Quelli precedenti risalgono al 1992 e al 2004, entrambi durante le due Intifada. “Quello del 1992, durato due settimane, – continua Jadalah – ha permesso di migliorare le condizioni nelle carceri. Quello del 2004, invece, ha fallito a causa delle divisioni interne del movimento: Hamas fu da subito contrario, riteneva fosse peccato rifiutare il cibo. Questa volta ha aderito, ma part-time: i detenuti di Hamas fanno sciopero solo alcuni giorni la settimana. Non è così che si resiste”.
A tentare di stroncare la resistenza dentro le carceri ci pensa anche l’IPS, l’amministrazione israeliana per le carceri: hanno tolto il sale ai prigionieri, l’unico sostentamento per proteggere lo stomaco durante uno sciopero. “Seguirà la solita punizione – spiega Murad – ovvero toglieranno il sale per due settimane dopo la fine dello sciopero. Lo prevede il regolarmente interno. Così come il trasferimento di prigionieri da un carcere all’altro, cosa che hanno già fatto con una ventina di detenuti. Abbiamo poi saputo che nel carcere di Haifa i prigionieri in sciopero sono costretti dalle guardie ogni sera a correre in cortile”.
Murad Jadalah si dice preoccupato, qualcuno potrebbe morire. “Sono quasi certo che qualche prigioniero non sopravvivrà allo sciopero, alcuni sono malati. Come la nostra bandiera, Ahmad Sa’adat, il leader del PFLP. E nelle piazze non accade nulla. Questa volta i prigionieri sono soli. Sì, qualcuno ha aderito allo sciopero e altri hanno montato tende, ma non è abbastanza. La gente deve mostrare di essere vicina ai prigionieri, ma come sempre aspettano che ci scappi il morto”.
E a livello politico non si muove nulla. Alcune associazioni hanno chiesto pubblicamente a Mahmoud Abbas di tenere un discorso a favore della protesta dei detenuti, ma il presidente si è rifiutato. “Dopo vent’anni da Oslo dove sono finiti i palestinesi? – si chiede Murad – L’Autorità Palestinese è riuscita nel suo obiettivo: annichilire il popolo, piegare le sue motivazioni. Ora l’unico obiettivo pare essere il business, la carriera, i soldi”.
Silenzio politico nonostante i numeri e le condizioni di vita parlino chiaro: dal 1967 sono stati 750mila i palestinesi passati per le carceri israeliani, di questi 10mila erano donne. Attualmente sono 11mila i prigionieri politici in Israele (di cui 37 donne e 257 minori sotto i 18 anni), di cui 6mila detenuti dopo un processo, gli altri in detenzione amministrativa. “Quello che Israele fa – spiega ancora Jadalah – è trattare i palestinesi come ‘security prisoners’. Ovvero, Israele non riconosce l’esistenza di un’occupazione militare, quindi non applica ai detenuti la Convenzione di Ginevra. Non sono prigionieri politici, ma ‘security prisoners’. Ciò si traduce in assenza di diritti. Duemila di loro non sono autorizzati a ricevere visite familiari né a telefonare a casa. Ma a differenza del soldato israeliano Shalit (utilizzato da Netanyahu per peggiorare ulteriormente condizioni già disumane) che ha un volto e un nome che tutto il mondo conoscono, i nostri prigionieri sono senza nome, sono anonimi, sono senza storia”.
E infine i prigionieri in isolamento. L’isolamento è spesso utilizzato per periodi limitati come forma di punizione, ma ci sono venti detenuti costretti in isolamento dal 2001: celle da 2,5 metri per 2,5 metri, divieto di leggere libri e quotidiani, di ascoltare la radio e guardare la tv, impossibilità di ricevere visite familiari. E divieto di appellarsi alla corte per farlo cessare, divieto giustificato con “ragioni di sicurezza”.
“Ora attendiamo l’11 ottobre per sapere se lo sciopero della fame continuerà e se verrà allargato a tutte le prigioni e i detenuti. Dipende dalle diverse fazioni politiche, ma anche dal sostegno della gente. È tempo che si muova: se non sei un combattente, almeno mostra solidarietà a chi sta combattendo per te.”
(Fonte: Alternative Information Center )
Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina fa appello al Consiglio dei diritti umani e chiede l’assegnazione della missione alla Croce Rossa medica per rilevare le condizioni di salute di Saadat.
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Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina invita e chiede al movimento popolare di massa all’interno e all’esterno del paese a tutti i livelli di fermare la lenta morte di centinaia di detenuti che trascorrono decenni dietro i muri dell’oppressione e dell’ingiustizia, del razzismo e dell’aggressione.