CPR e detenzione amministrativa

Come Associazione Amicizia Sardegna Palestina, esprimiamo il nostro sconcerto e la nostra crescente preoccupazione per i recenti fatti avvenuti nel CPR di Macomer, dove si susseguono da mesi episodi di malcontento e rivolta, fino all’utlimo qualche giorno fa durante il quale uno dei detenuti si è cucito la bocca in segno di protesta per le condizioni disumane all’interno del centro.

Avendo sempre guardato alle dinamiche coloniali e di occupazione che avvengono in Palestina non come qualcosa di isolato, ma come una realtà replicabile e, nei fatti, replicata, in svariate forme di oppressione tuttora esistenti, non ci è difficile riconoscere nel CPR di Macomer una forma di detenzione amministrativa simile a quella vissuta da tante e tanti giovani palestinesi.

In Palestina la detenzione amministrativa viene applicata arbitrariamente per non meglio definiti “motivi di sicurezza”, basati su “informazioni top-secret” in possesso dei servizi di sicurezza. Di conseguenza, né il detenuto né tantomeno il suo avvocato, sanno quale sia il capo di accusa. Il tempo di detenzione può durare sei mesi ed essere rinnovato ulteriormente; tanto che una delle detenzioni amministrative più lunghe all’interno delle carceri israeliane è stata di otto anni.

Allo stesso modo, all’interno del CPR di Macomer sono rinchiuse persone che non hanno commesso alcun reato e sono recluse per il semplice fatto di non possedere un valido permesso di soggiorno. Permesso che non verrà concesso, dal momento che l’obiettivo dello stato è un rimpatrio che attualmente non può essere eseguito a causa dell’emergenza sanitaria in corso. Un sistema contorto, dunque, che condanna il singolo individuo, privandolo delle sue libertà e dei suoi diritti fondamentali.

La giustificazione da parte degli stati europei all’esistenza di questi centri di rimpatrio (ma sarebbe più giusto etichettarli come centri di esclusione e privazione) ricade sulla volontà di evitare il “rischio di fuga” durante il procedimento di identificazione all’arrivo in uno stato e il loro carattere detentivo viene negato, così da farli apparire come centri d’accoglienza. Se non fosse che spesso i luoghi di detenzione sono vere e proprie prigioni di fatto, come dimostra il caso macomerese.

Il filo conduttore che lega i casi nostrani a quello palestinese è ancora una volta l’oppressione, fisica e anche psicologica, verso gli ultimi; la criminalizzazione e la disumanizzazione dei disperati e di chi si oppone allo stato di cose vigente, che teme la povertà perché incapace di offrire soluzioni che rispettino la dignità umana di tutti.
Ancora una volta notiamo come il potente richiamo a una generica “sicurezza” giustifica atti di repressione e reclusione che toccano le nostre comunità da vicino e devono spingerci a prendere posizione, contro il silenzio e l’indifferenza delle istituzioni.

Ci uniamo dunque all’appello di Asce SardegnaLasciateCIEntrare (QUI) ribadendo che “la presenza dei CPR è una intollerabile minaccia per l’ordinamento democratico dello Stato italiano, finché esisteranno spazi del genere, dove la regola è l’arbitrio del più forte, il silenzio delle vittime, il lucro di privati sulla violenza di Stato, nessuno potrà realmente considerarsi al sicuro”.