Pubblichiamo una breve recensione del Festival del Cinema Arabo Palestinese Al Ard, scritta da Gianfranca Fois a pochi mesi ormai dall’inizio della XIV edizione.
Il festival Al Ard, giunto ormai alla tredicesima edizione, si sta preparando a organizzare quella del prossimo anno. Si tratta di un festival di cinema palestinese e arabo organizzato dall’Associazione Amicizia Sardegna-Palestina di Cagliari.
Rispetto alle prime edizioni Al Ard si è man mano irrobustito, ha ampliato il numero di proiezioni con interventi di cineasti di diversi paesi e di diversi interessi. Insomma è diventato un vero e proprio festival seguito con interesse non solo da chi ha preso a cuore la questione palestinese ma anche da spettatori ancora non coinvolti e interessati solo, almeno all’inizio, a proiezioni di film, documentari che difficilmente avrebbero avuto l’occasione di vedere.
Si è creato così col tempo un pubblico di affezionati che aumenta costantemente tanto che ora ci sono due spin off a Napoli e a Trieste e un pre-festival a Macomer.
Per me è stata un’esperienza oltremodo bella e interessante. Per quanto simpatizzante della lotta palestinese, la mia posizione era soprattutto intellettuale, una scelta dettata dalla ragione e quindi tutto sommato non coinvolgente.
Aver avuto la possibilità di assistere ai filmati nel festival mi ha coinvolto anche emotivamente dando slancio alla mia adesione alla causa palestinese.
Davanti ai miei occhi sono scorse immagini belle ma soprattutto frammenti di vita che hanno originato un sapere, una conoscenza e consapevolezza che si è costruita momento dopo momento, ascolto dopo ascolto, visione dopo visione, ma anche giorno dopo giorno sino alla ricomposizione dei dati e alla ricostruzione non solo della complessità dolorosa della storia dei Palestinesi ma anche della loro capacità di resistenza nei confronti dell’occupante israeliano.
Come dice uno storico dell’arte francese non è stata tanto l’immagine ad interessarmi in quanto tale, ma ciò che questa immagine veicola sul dolore degli uomini, in questo caso i Palestinesi.
Sono immagini significative che ci costringono a metterci delle domande, a creare legami di senso, a cercare risposte nei libri, nelle testimonianze, e si sviluppa così quel senso critico che diventa alla fine naturale utilizzare sempre, quando si ascoltano o si leggono ad esempio servizi da Israele, spessissimo indecenti nella loro pretesa neutralità e invece sproporzionalmente favorevoli a Israele.
Perché si prende consapevolezza che parlare delle e attraverso le immagini significa “prendere posizione”, significa testimoniare l’indicibile, cioè quanto avviene realmente in Palestina e che l’informazione nazionale ma anche internazionale volutamente ignora e vorrebbe che non venisse a conoscenza dei cittadini del mondo. I soprusi, le angherie, le violazioni dei diritti umani, le violenze degli Israeliani prosperano nel silenzio o addirittura vengono rovesciate da una narrazione che Israele alimenta scientificamente (hasbara), attraverso un dipartimento del Ministero degli Esteri, con notizie distorte, scorrette, destinate alle agenzie stampa e alle principali istituzioni che governano il sistema comunicativo.
Le immagini degli abitanti palestinesi di Hebron ripresi mentre vengono vessati in tutti i modi, anche nella loro quotidianità, dai coloni e dai militari israeliani, sono ormai indelebili nella mia memoria e in quella degli altri spettatori. Sono immagini immerse, circondate dal silenzio e è proprio questo silenzio, questa mancanza di parola che ci ha permesso di costruire “una reale rinascita di senso”. E di non avere dubbi sulla nostra presa di posizione.
Gianfranca Fois