Vogliamo condividere questo contributo sulla situazione attuale, scritto qualche giorno prima dell’ultimo incontro tra i leader europei (17/18 luglio), ma che fa riflettere sulle conseguenze delle politiche in atto in Europa e di come queste influenzino anche le questioni internazionali.
La pandemia di Coronavirus ha fatto emergere la debolezza delle politiche neoliberali e capitaliste di quelle democrazie europee che, in quanto tali, avrebbero dovuto saper tutelare la salute dei propri cittadini come diritto fondamentale.
Al contrario, sembra di assistere inermi a un attacco di panico collettivo, un’isteria collettiva che vede i singoli stati agire autonomamente e senza nessun coordinamento, mettendo talvolta in atto politiche contradditorie e pericolose.
Infatti, le reazione all’interno dei vari stati membri dell’UE hanno fatto sicuramente trapelare una diffidenza reciproca, in particolare tra i cosiddetti “stati frugali” (Austria, Olanda, Danimarca, Svezia) che detengono una visione più rigida delle misure economiche da adottare in seno alla pandemia; e gli stati “del sud”, maggiormente colpiti dalla crisi e con un evidente bisogno di risorse più ingenti per far ripartire il motore della loro economie (tra cui Italia, Spagna, Portogallo e Grecia in primis).
Il gruppo dei frugali ha già espresso più volte le proprie perplessità rispetto alla proposta franco-tedesca di un recovery fund: parlare di aiuti e parlare di prestiti agli stati, in questo caso, non fa alcuna differenza, visto che in entrambi i casi essi si tradurrebbero sicuramente nell’imposizione di condizioni di austerità che a lungo andare ostacolerebbero una ripresa sostenibile, in quanto vincolati all’attuazione di “riforme strutturali” che prevedono un taglio alla spesa sociale. Quale dei due gruppi avrà l’ultima parola, si saprà a seguito del Consgilio europeo straordinario del 17 e 18 luglio.
Posizioni, dunque, che non fanno che confermare ancora una volta l’esistenza di una Europa a molteplici velocità in cui gli interessi dei singoli stati, in particolari di quelli economicamente più stabili, rappresentano la priorità a scapito degli interessi e delle esigenze delle masse.
La risposta tardiva e timida della Unione Europea non pare dunque volersi concretizzare in aiuti a chi sta subendo il contraccolpo di questa crisi, per esempio con l’attuazione di misure per fornire supporto alle aziende in crisi, anche ai fini di una possibile riconversione della produzione per dispositivi personali di sicurezza; oppure per la messa in sicurezza degli impianti e delle fabbriche per contrastare l’espandersi dei contagi tra i lavoratori e non solo (si veda per esempio il dilagare del virus negli impianti di macellazione). Sembra, invece, volersi orientare ancora una volta verso incentivi al settore sanitario privato, gli stessi incentivi che hanno portato allo smantellamento di una rete sanitaria pubblica ed efficiente che, appunto, non è stata in grado, durante il picco della pandemia, di far fronte al disastro (si pensi all’ospedale Mater in Sardegna, struttura privata individuata a seguito di una delibera regionale come struttura emergenziale anti-covid, con tutto ciò che comporta in termini di utilizzo di risorse pubbliche).
Viene quindi da chiedersi come queste falle del sistema e i tagli alla spesa pubblica possano inserirsi in quella visione di rilancio dell’Europa post-Covid; rilancio fortemente invocato nel discorso di insediamento della Merkel per il semestre di presidenza europea, la quale intende fare della crisi una opportunità e dell’Europa un attore competitivo su diversi fronti, non ultimo quello internazionale in cui la gara si gioca a viso aperto con Cina e Stati Uniti.
Ed è necessario soffermarsi proprio sull’evoluzione dei rapporti Stati Uniti – UE. Rapporti dettati non solo da strategie politiche, economiche e della sicurezza internazionale; quanto anche, probabilmente, dalle forti personalità di un Trump e di una Merkel, impegnati entrambi a consolidare la propria immagine internazionale, nella speranza di recuperare consensi interni.
Da una parte Trump, letteralmente travolto dalla pandemia di Coronavirus e dalle proteste seguite all’uccisione di George Floyd, sta cercando di porsi come garante della sicurezza interna e degli interessi economici, in vista delle elezioni di novembre.
Dall’altra la Merkel che, prima della pandemia, aveva assistito a un calo di consensi verso il suo partito. E se Trump cerca approvazione prima delle elezioni presidenziali, sicuramente la Merkel non vuole rimanere a guardare, giocandosi il tutto per tutto (come fanno notare alcuni osservatori) per guadagnarsi un posto rilevante nella storia prima del suo ritiro dalla politica, annunciato per il 2021.
Il testa a testa fra i due, però, si è probabilmente acuito a seguito del rifiuto tedesco di partecipare al G7 che, sotto proposta trumpiana, si sarebbe dovuto tenere a Washington lo scorso giugno (poi rinviato causa pandemia) ed è proseguita con l’annuncio americano di voler ritirare dalla Germania parte soldati presenti in territorio tedesco per poi trasferirli in Polonia. Parrebbe che le ragioni del trasferimento di parte del contingente americano dalla Germania siano da ricercare in questioni di stampo economico: infatti, l’America chiede da tempo alla Germania (come anche ad altri paesi eruopei) un aumento delle spese per la difesa all’interno dell’alleanza Nato ed è chiaro che una mossa di questo tipo rimette in discussione non solo l’organizzazione della Nato in sé, quanto anche il ruolo dei singoli paesi che la compongono e i reali interessi che possono ancora (s)legarli.
Di certo, al momento, nessuno dei Paesi europei (e neanche gli USA nonostante Trump già da tempo nutra dei dubbi sulla funzionalità dell’alleanza) sembra essere intenzionato a lasciare l’organizzazione atlantica o a metterne in discussione l’esistenza. È visibile, però, la confusione che regna sotto la bandiera Nato nei vari contesti di conflitto e in particolare nello scacchiere libico.
Forse non è mai abbastanza ribadire l’inconsistenza delle parole spese dalle istituzioni internazionali, soprattutto quando si riferiscono a situazioni di conflitto internazionale. In Libia, per esempio, assistiamo da anni al balletto schizofrenico delle potenze. Dire che la Nato non abbia svolto un ruolo in quella che è la situazione attuale libica solo perché negli ultimi anni si è – almeno apparentemente – defilata dalle operazioni, non è propriamente esatto. Infatti, all’indomani del rovesciamento di Gheddafi nel 2011, evento in cui la NATO non è stata semplice spettatrice, si riscontra ancora la prepotente presenza di membri NATO, anche tra i paesi UE, in Libia.
UE che sicuramente non manca, di dar sfoggio del suo bipolarismo anche sul palco scenico internazionale: se nelle conclusione della conferenza di Berlino di gennaio, fortemente voluta dalla Germania, si legge chiaramente l’impegno dei governi riuniti (Algeria, Cina, Egitto, Francia, Germania, Italia, Russia, Turchia, Repubblica del Congo, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito e Stati Uniti d’America, insieme agli Alti Rappresentanti delle Nazioni Unite, l’Unione Africana, l’Unione Europea e la Lega degli Stati Arabi) a non interferire nelle questioni interne alla Libia impegnandosi al rispetto dell’embargo sulle armi, più tardi tradottosi in quella che è stata definita “Operazione Irini”; la stessa Germania, nei fatti, non si esime dal vendere armi a tutte le parti attive nel conflitto libico.
Parlando di Nato e di Libia è sicuramente la Turchia a far sfoggio della sua potenza militare e della sua sfrontatezza politica da seconda potenza dell’alleanza atlantica. Tralasciando il ruolo turco nella questione siriana, Erdogan non tenta neanche di nascondere la sua volontà di ampliare la sfera di influenza turca in Africa appoggiando il governo di Tripoli guidato da Al-Sarraj (riconosciuto peraltro da UE, ONU e supportato anche dalla Nato), ma violando sistematicamente lo stesso embargo sulle armi, voluto dai paesi dell’UE. Questa ambiguità ha contribuito a creare non pochi disguidi con la Francia che, anche se pare non volerlo ammettere apertamente, tifa per il generale Haftar, rivale di Tripoli e minaccia per gli “sforzi” di UE e Onu. Disguidi che hanno infine spinto la Francia a sospendere momentaneamente le sue attività nell’Operazione Sea Guardian della Nato.
Insomma, il mondo post-Covid al momento non sembra discostarsi molto dall’epoca che l’ha preceduto. Le alleanze vengono sovvertite, più o meno esplicitamente, da un giorno all’altro, tanto che diventa complicato parlare di mondo bipolare, definizione che spesso viene data ancora per scontata. Il Covid ha forse avuto il “merito” di denudare quei politici più preoccupati a mantenere solido un sistema economico e politico basato sulla fomentazione di conflitti e sulla vendita di armi, piuttosto che sulla tutela dei diritti basilari dei cittadini. Per cui la domanda che molti, anche tra i vertici, oggi si pongono “se la crisi sanitaria ed economica attuale possa essere vista come un’opportunità”, richiede una risposta che sovverta il sistema, ovvero un vero e proprio superamento della struttura capitalista e guerrafondaia sulla quale si basano le alleanze tra stati, per giungere a mettere al centro delle politiche nazionali e internazionali i cittadini e le masse, da una parte rese esauste dai conflitti (si pensi alla popolazione yemenita) e, dall’altra, stanche di far parte di quel ricatto per cui la spinta economica e all’occupazione debba passare per forza di cose per una economia di guerra e non sostenibile.