Storie di vita dalla Palestina occupata_6 – Campo Profughi Di Al Fawwar

Storie di vita dalla Palestina occupata_6

Campo Profughi Di Al Fawwar

(a cura dell’Associazione Amicizia Sardegna Palestina)

Siamo a sud ovest di Hebron, in uno dei 19 campi profughi della Cisgiordania. Ismael Abu Hashhash vive qui ad Al Fawwar e ci spiega cosa significhi vivere in un campo, destino toccato a circa il 40% dei profughi palestinesi:

Ogni campo profughi è diverso dall’altro, ma la vita non è facile da nessuna parte. Qualsiasi scontro politicamente rilevante succeda nell’area del Medioriente, i primi a pagarne le conseguenze sono i profughi palestinesi, sempre, basti ricordare i vari massacri: quello del 1969 in Giordania, Sabra e Chatila in Libano nell’82, l’Iraq nel 2002 e le attuali sofferenze degli abitanti del campo di Yarmouk in Siria.

La vita in un campo è difficile perché c’è un alto tasso di povertà. Dopo la Nakba (In arabo significa “catastrofe” e indica l’esodo forzato di migliaia di palestinesi dalle loro terre a seguito della costituzione dello stato di Israele) nel ’49, tutti i servizi dipendono dall’UNRWA, perciò adesso la situazione nei campi è peggiorata a seguito di queste proteste che durano da più di 50 giorni.

Alla fine del 1948 le Nazioni Unite hanno creato un’Agenzia, l’UNRWA, che si occupasse dell’assistenza di tutti i profughi palestinesi. Essa è perciò responsabile di tutti i servizi essenziali: dall’istruzione, all’assistenza sanitaria e sociale.

Ormai da oltre due mesi i lavoratori dell’Agenzia delle Nazioni Unite sono in sciopero: si lamentano della diminuzione dei loro salari e della differenza di compenso fra gli operatori palestinesi e gli internazionali, sostenendo che questi ultimi ricevano somme maggiori. Sostengono, inoltre, che l’UNRWA abbia licenziato alcuni operatori palestinesi poiché in passato hanno avuto problemi con le autorità israeliane (ad esempio sono stati arrestati, anche per breve periodo). L’agenzia dell’ONU si difende argomentando che le motivazioni dei licenziamenti siano di altra natura e che la diminuzione dei salari si è fatta necessaria poiché l’attuale livello di stipendi è diventato “finanziariamente insostenibile”.

L’immediata conseguenza di tutto questo è stata la carenza dei servizi in tutti i campi profughi che ha portato i loro abitanti a proteste, spesso sfociate in veri e proprio scontri con la polizia. Nel corso di queste dimostrazioni, gli enormi cumuli di spazzatura, abbandonati sul ciglio della strada per l’assenza dei servizi di raccolta, sono stati dati alle fiamme o sono serviti da barricate rendendo impraticabile l’accesso ai campi stessi.

Preferisco parlare di tutti profughi, non solo quelli di Al-Fawwar, ma anche quelli di Dheisheh, Al Jalazone, Qaddura o quelli in Giordania e Libano. I rifugiati hanno perso tutto- continua il signor Ismael– hanno dovuto abbandonare le loro case e i loro beni, sono stati cacciati dalle loro terre e si sono sparsi dappertutto. Io vengo originariamente dal villaggio di Iraq al-Manshiyya a nord est di Gaza, che oggi è diventata Kiryat Gat, una città grande di Israele. Attualmente i circa 6 milioni di profughi sono per la gran parte a Gaza e in Giordania. È una parte della tragedia palestinese. La protesta in corso, è importante, ma non è il problema fondamentale, poiché deriva da tutto il resto. La Nakba non ha significato solo perdere le case, o le terre, ma ha distrutto la comunità nazionale palestinese, economicamente, politicamente e fisicamente. Io personalmente ho comprato della terra qui vicino, a Dura, ho trovato un rimedio per me stesso. Bisogna trovare una soluzione per tutti i rifugiati, il problema è questo, non vengono adottate decisioni che anche a lungo termine possano valere per tutti e la comunità internazionale ignora questo.

La soluzione al problema può essere solo politica: i palestinesi devono avere un proprio stato indipendente e la risoluzione 194 dell’ONU deve essere applicata per i rifugiati.”

La risoluzione 194 dell’ONU è stata approvata l’11 dicembre del 1948, si compone di 15 articoli: l’articolo 11 prevede il diritto al ritorno da parte di tutti i profughi palestinesi.

I profughi che vivono in Palestina stanno meglio di quelli che vivono negli altri paesi. In Libano ai palestinesi viene precluso il diritto di poter fare i lavori per i quali è richiesto un alto livello di istruzione come il medico o l’avvocato. Non è loro permesso di sistemare le case, se vi sono dei guasti, perché non possono comprare il materiale necessario. Non hanno un documento d’identità vero e proprio, ma un documento di viaggio particolare con il quale possono fare specifici spostamenti: non possono visitare tutti i paesi, possono viaggiare ovunque in Libano, se vogliono andare in Giordania devono chiedere un visto, che non è facile da ottenere, dipende anche dei paesi dove si vuole andare, se accettano o meno i profughi palestinesi. In ogni caso devono chiedere l’autorizzazione, ma se volessero andare in Australia, possono farlo con facilità, perché è lontana. Quelli che vivono in Cisgiordania, hanno lo stesso documento dei palestinesi e quelli che vivono in Giordania possono scegliere se avere il passaporto giordano. I profughi in Siria, invece, generalmente hanno molte più “libertà”: possono fare qualsiasi lavoro, possono addirittura essere eletti ministri, ma comunque rimangono sempre rifugiati palestinesi.

Ci accompagna per il campo, dove vivono circa 6000 persone. Indicandoci l’uscita ci dice che talvolta il campo viene chiuso per ragioni “di sicurezza” che non vengono mai spiegate: “Così da un momento all’altro – spiega- e senza alcun preavviso, il campo viene chiuso, talvolta anche per ore, impedendo l’accesso o l’uscita a chiunque.” Ci spiega che questo succede nel caso in cui nel territorio circostante sta passando una personalità israeliana importante o dei coloni, ma spesso non c’è alcuna ragione.

Di fronte al campo c’è la colonia di Khursa, in occasione della seconda intifada, nel 2002, la strada di fronte alla colonia è stata chiusa fino al 2009, il signor Ismael ci spiega che ancora oggi talvolta la strada viene chiusa arbitrariamente.

Teresa Batista