Storie di vita dalla Palestina occupata_9

Storie di vita dalla Palestina occupata_9

Maysara Abu Hamdeieh

(a cura dell’Associazione Amicizia Sardegna Palestina)

Incontriamo la signora I’tedal nella sua casa, ha un’espressione triste, un viso liscio incorniciato da un fazzoletto di un blu intenso. Ci parla in un inglese corretto senza alcuna inflessione e con un tono di voce rassicurante ci racconta di Maysara, suo fratello: le sue foto sono disposte su due pareti della stanza.

I primi problemi di salute sono cominciati nel 2007 e sono progressivamente peggiorati. Era malato, gravemente, ma nonostante questo ha trascorso in prigione il suo ultimo giorno di vita. Il medico che lo seguiva non lo trattava con l’umanità che un medico dovrebbe avere, non si comportava affatto da medico, ma da soldato o da burocrate, come se non avesse a che fare con una persona, ma con una pratica da sbrigare. Io riuscivo ad andare a trovarlo ogni due settimane, avevo ottenuto il permesso annuale. Si lamentava: diceva di aver male al petto e alla gola, diceva che non lo stavano curando, che gli davano degli antidolorifici, dei calmanti, ma non gli avevano prescritto una vera cura.

Vedendo le sue condizioni peggiorare progressivamente nella totale indifferenza delle autorità carcerarie, gli altri detenuti iniziarono uno sciopero della fame, perché fosse portato in ospedale. Il mese successivo lo portarono per quattro volte in un ospedale lontanissimo, un viaggio di otto ore per andare e di altre otto per tornare. Non avevano nemmeno una vera ambulanza, ma uno di quei mezzi che vengono utilizzati per il trasporto dei detenuti, quelli con gli interni di ferro. I detenuti che vivevano con lui dicono che alla fine di questi viaggi non aveva neanche la forza di aprire gli occhi.

Dopo questo periodo hanno deciso di lasciarlo nell’ospedale del carcere, perché le sue condizioni erano particolarmente peggiorate. Il dottore dell’ospedale gli disse che aveva una malattia gravissima, ma che non riusciva a capire che malattia fosse e solo tre settimane prima di morire gli dissero che era un cancro alla gola. Quando la moglie lo visitò l’8 marzo, disse che, per la debolezza, non aveva la forza di parlare. L’associazione dei detenuti aveva più volte chiesto di vederlo, ma gli venne puntualmente vietato fino a che una mattina, prima di morire, uno degli avvocati riuscì ad incontrarlo e a riportare che le sue condizioni erano notevolmente peggiorate. Un sabato mattina presto, mentre faceva le abluzioni per la preghiera si è accasciato a terra svenuto. È stato portato in ospedale, dov’è morto il martedì mattina, il 2 aprile. Aveva 64 anni.

Con l’ultima condanna è rimasto in carcere per 11 anni. Quando era giovane, all’ultimo anno di scuola superiore prese parte ad un’organizzazione giovanile contro l’occasione. Venne arrestato allora, aveva appena 19 anni.

Quando venne scarcerato partì per l’Egitto per poter studiare elettronica. Ha sempre scritto poesie fin da giovane e la signora I’tedal racconta che spesso era lei stessa a leggerle a scuola. Erano poesie dedicate alla Palestina, o scritte in occasione di particolari ricorrenze. Scriveva anche articoli accademici e giornalistici, scrisse di politica ed economia, fece un articolo accademico risultato di un accurato studio su come gli israeliani insegnassero ai bambini nelle scuole ad odiare gli arabi. Scriveva spessissimo anche ai suoi 4 figli, scriveva loro delle lettere in cui li consigliava e li redarguiva.

Negli anni ’70, in particolare dal ’75 al ’78, venne arrestato per due volte con la detenzione amministrativa: lo arrestarono, lo rilasciarono per pochi mesi per poi arrestarlo di nuovo. Nell’agosto del ’78, mentre era in prigione, fu deportato dagli israeliani in Giordania, solo in seguito la famiglia scoprì che lavorava per l’OLP in Giordania.

Dice la signora I’tedal: “Noi famiglia non abbiamo mai saputo niente del suo lavoro con l’OLP, non siamo mai stati coinvolti nelle sue attività. Il suo lavoro era segreto, non sappiamo se il suo lavoro con l’OLP iniziò in Giordania oppure già lavorava qui in Palestina. Dopo gli accordi di Oslo non è tornato subito qui, è rimasto in Giordania, in tutto per 20 anni, dove nel 1979 si è sposato. Al suo ritorno in Palestina nel 1998 ha cominciato a lavorare per il Servizio di Sicurezza Preventiva Palestinese, nel quartier generale di Ramallah, ma viveva ad Hebron, mentre la sua famiglia rimase tutta in Giordania a parte il figlio che frequentò l’università ad Hebron. Nel 2002, all’inizio della seconda intifada è stato arrestato. Negli ultimi undici anni ha cambiato spessissimo prigione. A tre anni, circa, dal suo arresto, sono riuscita ad ottenere un permesso per andare a trovarlo.

Ci spiega anche di come sia complicato per i familiari dei detenuti poter andare a trovarli:

Oltre ai genitori, possono recarsi in visita solo i fratelli e le sorelle e i figli minori di 16 anni e maggiori di 46. I suoi figli non potevano andare a trovarlo perché sono tutti e quattro maschi e maggiori di 16 anni. Successivamente, attorno al 2007- 2008, le regole sono cambiate e un figlio aveva un permesso speciale per il quale poteva andare a trovarlo una volta all’anno. Il permesso che ho ricevuto durava tre mesi, nei quali potevo andare a trovarlo ogni due settimane, ma il rinnovo del permesso non era automatico. Tra un rilascio e l’altro passavano sempre un paio di mesi. Circa tre anni fa hanno cambiato ancora le regole, istituendo un permesso annuale, che ovviamente può essere ottenuto solo dai parenti stretti maggiori di 46 anni o dai minori di 16. Ovviamente parlo del mio caso, ma so di detenuti i cui familiari non sono mai riusciti ad ottenere un permesso. Io stessa ho dovuto aspettare un anno e mezzo dalla mia richiesta per ottenerlo.

Quando era in carcere e ha saputo della sua malattia aveva reagito bene, perché era convinto che sarebbe stato finalmente rilasciato. Ma non è andata così.

Teresa Batista