di Khaled Barakat
Traduzione di Aldo Lotta per Sardegna Palestina
Ci stiamo dirigendo verso un conflitto interno palestinese o verso ciò che alcuni chiamerebbero una “guerra civile?”
Questa domanda viene utilizzata da alcuni per raggiungere i propri miseri obiettivi gettandola sulla faccia del popolo palestinese al fine di intimidirlo e spaventarlo. C’è chi vuole che il nostro popolo accetti le condizioni del nemico sionista, così da non opporre resistenza – che accetti la “realtà”, in modo da non affrontare la crisi insita nella situazione interna palestinese. Tutto questo con il pretesto della “dedizione all’unità nazionale!”
Dall’altra parte, ci sono quelli che vogliono condurre la nostra gente verso la battaglia sbagliata, spingendoli a mescolare mele e arance, fino a quando i loro piedi non verranno trascinati nel tritacarne dell’ autodistruzione.
In entrambi i casi, saremo condotti in un campo minato, foriero di una morte sicura e dentro un progetto utile solo al nemico, ai suoi alleati e ai suoi agenti.
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Tuttavia, la domanda di cui sopra rimane legittima se si considera fondata sulla storica esperienza del popolo palestinese e se si coglie seriamente e profondamente nel suo contesto naturale.
I popoli e i movimenti di liberazione che si sono trovati ad affrontare il colonialismo hanno vissuto conflitti interni o guerre civili. Non ci sono arrivati all’improvviso o senza il susseguirsi di avvisaglie o di situazioni che conducessero nitidamente ad essi. Né hanno raggiunto il punto di rottura con gli oppositori politici interni perché “volessero” una nuova guerra o un conflitto che si sarebbe ulteriormente aggiunto al tormento quotidiano per mano dei colonizzatori. In effetti, la stragrande maggioranza delle persone cerca uno stato naturale di stabilità, preferendo gestire le proprie differenze interne con modalità pacifiche e democratiche, se in grado di farlo. Tuttavia, le roventi lotte interne a volte portano all’impossibilità di convivenza tra programmi, classi e forze sociali incompatibili e le reciproche contrapposizioni raggiungono un punto di esplosione senza recupero.
Nonostante la peculiarità dello spazio e del tempo per ogni popolo, area e nazione, quanto scrive il martire, compagno Mahdi Amel, sulla guerra civile in Libano rimane un importante riferimento intellettuale e storico per comprendere l’essenza dei conflitti settari, delle guerre civili, della loro origini e del ruolo delle forze locali ed esterne. Mahdi Amel ha voluto sottolineare che questi eventi vanno oltre la forma di un conflitto tra sette, leader, fazioni e tribù. Esiste una classe dirigente che raccoglie tutti i benefici del conflitto ed è disposta a sacrificare vite umane.
C’è un altro esempio, sempre in Libano, che può sembrare abbastanza distante dalla nostra concezione di guerra civile: quando discutiamo del ruolo dell'”Esercito del Libano del Sud”, [formato da, ndtr.] collaboratori dell’occupazione israeliana e dai suoi agenti nella “regione della cintura di sicurezza” [regione di confine del Libano con Israele rimasta sotto parziale controllo di Israele dopo la fine della guerra del 1982, ndtr.]. La resistenza li trattava come parte integrante delle forze nemiche e bersagli legittimi del fuoco di resistenza. La presenza del nemico sionista nella battaglia fece apparire questo conflitto come se fosse completamente al di fuori dell’ambito dello scontro interno in Libano. Ciò ha favorito la missione della resistenza nell’ affrontare la battaglia risolutamente e raggiungere la vittoria e infine la liberazione.
È necessario prendere in esame le esperienze dei movimenti popolari e delle lotte di liberazione in Cina, Vietnam, Cuba, Sudan, Filippine, Colombia, Irlanda, Sudafrica e oltre, per trarre lezioni e rilevare somiglianze e differenze. Lo stesso vale per l’esperienza dello stesso popolo palestinese, i conflitti interni nella sua società e il modo in cui sono esistite (ed esistono) forze locali palestinesi che hanno ostacolato il progredire della loro lotta di liberazione nazionale fin dal momento in cui le navi da guerra di Napoleone erano ancorate di fronte alle mura di Acri nel 1799 [l’assedio infruttuoso di S.Giovanni d’Acri nel corso della Campagna d’Egitto, ndtr.].
Forse oggi si deve prestare maggiore attenzione alla nostra concezione del significato di conflitto interno o guerra civile. Questo tipo di guerra è, nella maggior parte dei casi, inseparabile dal conflitto in una regione o in un’area. Il caso palestinese non fa eccezione. Inoltre, esistono sempre delle cause per i conflitti interni e i loro elementi possono essere scoperti scavando sotto le ceneri. E questa guerra non ha sempre l’aspetto di un conflitto politico violento o chiaro. Il conflitto interno è l’incarnazione di una lotta tra blocchi, classi, opzioni politiche e centri di potere. Spesso è uno scontro tra la maggioranza popolare e tra i sistemi e le strutture fondate dal moderno colonialismo per “consentire” loro di governare nella misura consentita dal colonizzatore, in funzione del proprio beneficio. Servono come strumento, arma e scudo, il cui destino è deciso solo da una rivoluzione popolare o quando lo stesso colonizzatore venga sconfitto.
Questa è la realtà del conflitto e le regole del suo sviluppo e delle sue contraddizioni in ogni società in cui una classe stabilisca un regime di oppressione invece del dialogo e non consideri il confronto con il nemico esterno una priorità nazionale. Qualsiasi regime che opti per un percorso di abuso, sfruttamento, monopolio, impoverimento ed esclusione – come inerente al sistema capitalista – è un regime della minoranza dominante, e il suo rapporto con il popolo alla fine raggiungerà un punto critico, scontrandosi inevitabilmente con la maggioranza popolare che avendo perso tutto ora non ha più nulla da perdere.
Oggi, i rivoluzionari nelle Filippine stanno combattendo contro i “loro compatrioti” in armi, ma si rendono conto che stanno combattendo contro gli strumenti dell’imperialismo e contro il saccheggio del loro paese da parte delle grandi aziende. Il popolo filippino visse per 400 anni sotto il giogo del colonizzatore spagnolo, che poi lo trasferì nel 1898 alla diretta occupazione americana, durata per quasi 50 anni. Questa realtà dell’egemonia e del dominio statunitensi persiste fino ad oggi, anche se i meccanismi di egemonia, controllo nominale e sistemi di saccheggio sono variati nel tempo.
Il popolo algerino sa come il colonialismo francese abbia istituito le “Brigate Harki”, battaglioni fantoccio armati, composti da algerini che hanno servito le forze colonizzatrici francesi e hanno commesso crimini contro il popolo. Sono una copia fedele delle “Fazioni palestinesi per la pace”. (gruppi paramilitari fondati dai colonizzatori britannici per annientare la resistenza palestinese negli anni ’30 e ’40).
Queste cosiddette “fazioni per la pace” furono istituite dalla Gran Bretagna in Palestina, supervisionate dalle forze britanniche e addestrate e armate dall’ufficiale O’Connor a metà degli anni ’30. Parteciparono alla soppressione della Grande Rivoluzione Palestinese nel 1936, preludio alla Nakba del 1947-48. Erano sotto la guida di figure appartenenti a famiglie feudali, insieme a benestanti provvisti di stretti legami con le forze imperialiste e reazionarie della regione, tra cui Fakhri al-Nashashibi, Fakhri Abdul-Hadi e altri, guidati da Ragheb Nashashibi, leader del Partito della Difesa Nazionale. Il generale britannico Charles Tiggart istituì, a partire da tali brigate, un vero e proprio sistema di sicurezza e stabilì centri militari di polizia nelle città e nelle aree di confine, conosciute come “roccaforti” (Muqata in arabo, oggi il nome usato per il palazzo presidenziale dell’Autorità palestinese nella Ramallah occupata). Queste costituirono delle “cinture di sicurezza” per proteggere i coloni sionisti-britannici dagli attacchi rivoluzionari. Il collaboratore Fakhri Nashashibi fu assassinato in Iraq nel 1941, mentre Fakhri Abdul-Hadi fu assassinato dai rivoluzionari nel villaggio di Arraba (distretto di Jenin) nel 1943.
Prima della costituzione dell’Autorità Nazionale Palestinese nel 1994, l’occupazione israeliana istituì un sistema noto come Rete dei Consigli di Villaggio. Realizzò anche altre entità sotto diverse denominazioni e colori, tutte utili agli interessi di Israele e al progetto sionista. Tuttavia, tutto ciò non fu più necessario dopo l’istituzione dell’autorità di Oslo e dei suoi strumenti. Il colonizzatore si adopera sempre a creare una zona cuscinetto o un sistema di mediazione tra se stesso e la popolazione colonizzata attraverso un’autorità locale subordinata.
Gli scontri armati avvenuti tra le forze palestinesi nell’anno 1935, e in Giordania e in Libano dopo l’inizio della rivoluzione palestinese negli anni ’60, ma anche a Gaza nel 2007, sono tutte manifestazioni che incarnano questo conflitto interno palestinese tra un approccio e il suo opposto, tra classi e interessi contrastanti. La questione non era “personale” tra lo sceicco Izz al-Din al-Qassam e il leader feudale Ragheb Nashashibi, né lo era tra il martire Wadie Haddad e il re Saddam Hussein. Chiunque sostiene altrimenti intende solo promuovere illusioni a beneficio di coloro che cercano di propagandare risposte rapide e pronte.
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Tuttavia, mentre gli abitanti dei palazzi e i proprietari delle banche hanno la loro autorità e i relativi dispositivi di sicurezza, dove possiamo trovare potere e autorità per i campi e per le classi popolari? Qual è il loro progetto politico alternativo? Quali sono le forze che oggi portano avanti tale visione ?
La terra di Palestina che è stata oggetto di negoziati è di proprietà collettiva del popolo palestinese. Le risorse naturali e la ricchezza sono proprietà collettiva. Il gas naturale rubato, sotto i mari della Palestina, è proprietà collettiva. Anche l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e le sue istituzioni sono proprietà collettiva, ma sono state confiscate, persino rapite e trasformate in un’impresa privata per un manipolo di mercanti che hanno venduto la causa, la terra e il popolo. La nostra gente si rende conto che la rete di sionisti, collaboratori e ladri, che si estende da Tel Aviv al Cairo e da Amman a Ramallah, è quella che saccheggia e vende la loro ricchezza, ed sono proprio queste le forze che condividono [la gestione della, ndtr.] sicurezza e concludono i trattati di resa con l’occupazione israeliana. Tra questi, gli accordi di Camp David del 1978 e 1979 tra Egitto e Israele; il trattato di Wadi Araba tra Giordania e Israele del 1994; e, naturalmente, i famigerati accordi di Oslo del 1993 con i loro corollari. Proprio questa parte esclude il 99% del popolo palestinese e proibisce loro di esercitare il loro diritto di determinare il destino della propria causa nazionale attraverso una personale scelta libera e popolare.
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Siamo dunque sull’orlo di una guerra civile palestinese?
La verità è che viviamo nel cuore di questo conflitto. Non abbiamo sospeso neppure per un giorno il perdurare di questa discordia, anche se le sue manifestazioni cambiano da uno stadio all’altro, senza aver assunto, sino a questo momento le caratteristiche di violento confronto popolare. Fino a quando il popolo palestinese non libererà la sua voce e la volontà nazionale collettiva, non si risolleveranno le classi popolari e non prevarrà un approccio alternativo, la parte arrendevole e degenerata della classe dominante minoritaria palestinese continuerà ad avere l’egemonia, a fare affari e a vendere le conquiste e i guadagni del popolo, nel nome di quella stessa gente ma alle sue spalle, irresponsabilmente e impunemente.
Sì, un conflitto palestinese esiste da sempre. Le sue fiamme si affievoliscono e divampano in base all’equilibrio delle forze e alla tensione della lotta di classe interna. Questa è stata la norma dal momento in cui salirono al potere i leader feudali e la grande borghesia, diventando un manipolo di agenti finanziari, che facevano gli interessi dell’occupazione e del capitale a Ramallah, Amman e Nablus. Indipendentemente dalle cause che hanno portato a questa realtà – che sono innegabilmente importanti e che dovrebbero essere affrontate in successivi articoli – la verità fondamentale e incrollabile è che esiste una parte minoritaria di palestinesi in possesso di un’egemonia, che detiene le corde del processo decisionale politico e lo monopolizza attraverso il potere, il denaro e il sostegno straniero, americano, europeo e degli arabi reazionari, grazie alla sua condivisione con l’occupazione [del settore, ndtr.] della sicurezza. Questa è disposta a commettere crimini politici al fine di difendere i propri interessi. Queste forze hanno impedito la vittoria, fatto abortire più di una rivolta popolare, messo da parte la terra e i diritti e distrutto le conquiste nazionali palestinesi.
Questa guerra non è una guerra tra regioni, né tra sette religiose, né tra interno ed esterno, tra destra e sinistra, tra destra e destra, né tra Gaza e la Cisgiordania, ma piuttosto è una parte naturale del grande conflitto: tra un popolo che è sotto occupazione e in esilio e diaspora che desidera liberare la propria terra e il proprio popolo e, d’altra parte, le forze al servizio del colonizzatore. Fa parte di una più ampia lotta tra la nazione araba e la civiltà che viene quotidianamente oppressa dall’oceano al Golfo, e dai progetti e dalle forze imperialiste, sioniste e reazionarie che cercano di erodere e tenere sotto controllo le ricchezze dei popoli.
La rabbia popolare che si trova nei campi profughi palestinesi in particolare, e nelle sacche della miseria e della povertà, non è dovuta all ‘”invidia” verso coloro che vivono nei palazzi e accumulano ricchezze nelle banche straniere. Questa rabbia è dovuta al fatto che queste fortune si basano sul saccheggio della ricchezza del popolo palestinese, i cui diritti sono stati rubati, saccheggiati e violati per oltre 72 anni.