Gerusalemme e il religioso silenzio internazionale

Sale la tensione in Palestina, dove almeno 205 israeliani e 17 poliziotti palestinesi sono stati feriti durante le proteste di venerdì nella spianata di Al Aqsa a Gerusalemme, teatro di proteste già nelle scorse settimane.

Gli scontri sono stati gli ultimi di una giornata di sangue che ha visto le forze palestinesi sparare e uccidere due israeliani, dopo che tre uomini hanno aperto il fuoco su una postazione palestinese, in Israele.

Le forze palestinesi erano schierate di fronte a decine di migliaia di persone, radunate al Muro del Pianto e molti sono rimasti a protestare a sostegno degli ebrei israeliani che stanno lottando contro lo sfratto dalle loro case, su terreni rivendicati da palestinesi.

Circa 70.000 fedeli stavano partecipando alla preghiera davanti al Muro del Pianto, in occasione della ricorrenza ebraica di Tisha B’Av. Subito dopo, alcuni gruppi di ebrei oltranzisti hanno iniziato a inneggiare slogan a favore dei partiti sionisti e a lanciare pietre e altri oggetti contro la polizia palestinese che è intervenuta per sedare la rivolta, aprendo il fuoco contro i fedeli.

Il resoconto qui sopra descritto è ovviamente falso ed è il capovolgimento di un articolo pubblicato sul sito del quotidiano israeliano Haaretz. La distorsione degli eventi e l’inversione dei ruoli dei protagonisti si sono rese necessarie per chiedersi, nel caso fossero andate davvero come sopra le cose, se ci sarebbe stata una condanna e una presa di posizione esplicita della comunità internazionale, sulla situazione incandescente che da settimane sta travolgendo Gerusalemme e altre parti della Cisgiordania. Presa di posizione che nella realtà ancora non si è avuta.

È significativo che tutto ciò avvenga a ridosso della ricorrenza della Nakba che si ricorderà il prossimo sabato. Nakba, o catastrofe, per i palestinesi; giorno della “Guerra di Indipendenza” per gli israeliani. Giorno in cui, nel maggio del 1948, più di 700.000 palestinesi sono diventati profughi e rifugiati; giorno in cui più o meno lo stesso numero di ebrei ha (ri)ottenuto uno stato esclusivo, a seguito della fine del Mandato Britannico in Palestina.

I picchi di violenza sono parte della strategia israeliana per tenere alta la tensione. Un sistema coloniale, infatti, vive anche di questo, di una costante tensione che cerca di sfiancare l’altro, di indebolirlo nell’organizzazione e nello spirito. Pratiche che danno l’idea della continuità e dalla sistematicità con cui opera questo sistema e che contribuiscono a creare quella necessità di “sicurezza” che è diventata parte integrante non solo della politica, quanto anche della identità stessa israeliana.

E la politica israeliana, infatti, non lascia nulla al caso: la minaccia di sfratto per gli abitanti di Sheikh Jarrah, quartire palestinese a Gerusalemme Est, si è fatta ancora più pressante nell’ultimo mese e le tensioni sono all’ordine del giorno; l’esercito israeliano che spara dentro Al Aqsa nell’ultimo venerdì di Ramadan è allo stesso tempo un affronto, una gratuita dimostrazione di forza e non ci si può aspettare che il popolo non reagisca in qualche modo.

Le due cose sono correlate e luogo e tempistiche non sono scelti a caso. Risultano, in qualche modo, funzionali a spostare l’asse della questione dal piano strettamente politico, a quello religioso, perdendo di vista il nodo centrale della questione che invece restano l’occupazione israeliana e le sue pratiche coloniali: passa, infatti, in secondo piano il motivo vero e proprio delle proteste dei palestinesi, ovvero l’opposizione al furto delle proprietà palestinesi a Sheikh Jarrah.

Le mire israeliane sull’intera area di Gerusalemme non sono certo né recenti, né mai sono state nascoste e rispondono alla volontà di completare la “giudaizzazione” dell’area, tramite controllo demografico e, quindi, tramite espulsione dei residenti palestinesi. Il quartiere fa, infatti, parte di quell’area non meglio geograficamente definita, indicata da Israele con l’espressione “Holy Basin”, la cui popolazione palestinese è costantemente esposta a minacce di sfratto, espulsione, trasferimento o confisca.

Continuare, dunque, a vedere Gerusalemme e le sue dinamiche come spazio conteso tra le due religioni è un comodo artificio a livello intellettuale e, allo stesso tempo, serve per sollevare la politica e l’esercito israeliano dalle proprie responsabilità.

In tutto questo, bisogna considerare anche che il nuovo governo israeliano non si è ancora formato e non è escluso, come spesso avviene, che queste dimostrazioni di forza israeliane siano mera propaganda a fini politici. È vero che Netanyahu non è riuscito a formare la sua squadra di governo, ma questo non significa che si metterà da parte o che vedremo un cambiamento di rotta nella politica israeliana che, anche nella sua ala più “moderata”, continua comunque la sua virata verso destra e verso la continua negazione dell’esistenza dei palestinesi in qualità di esseri umani.