Certo è che la creazione di una coscienza politica che sia il più possibile coerente non è impresa facile, soprattutto in un periodo storico in cui l’imperativo sembra voler a tutti i costi slegare la cultura dalla politica e prendere per buono tutto ciò (movimenti, atteggiamenti, slogan) che inneggi a pace, amore, libertà e democrazia.
Spesso, però, prima di cedere a facili entusiasmi è necessario fare un passo indietro, analizzare e riappropriarci del significato politico delle parole e anche dell’utilità politica della cultura, in quanto gli eventi culturali non sono quasi mai neutri o neutrali, per quanto si propongano (speriamo sempre in buona fede) di perseguire valori universali (?) o meglio universalmente (?) accettati quali “amore”, “pace”, “non-violenza”.
È difficile fissare questi termini all’interno di una cornice definita. Ci rimandano a qualcosa di così ampio, aleatorio e, per ciò stesso, difficile da afferrare. Come difficile da afferrare è l’intenzione degli organizzatori del festival Love Sharing che quest’anno risulta essere organizzato anche grazie al contributo dell’Ufficio Culturale dell’Ambasciata di Israele.
Ma come può “il primo Festival internazionale dedicato alla cultura della pace e della nonviolenza” (cito dal sito ufficiale http://www.lovesharingfestival.org/) ricevere contributi (non è importante qui di che natura) da uno stato che, non è mistero, fa uso costante della violenza e di sistemi di apartheid contro la popolazione palestinese?
Gli organizzatori riferiscono di aver “invitato gli artisti israeliani, che non sono lo Stato Israeliano. Sono al contrario coloro che all’interno di quello Stato portano avanti una cultura nonviolenta. E’ nostra convinzione che sostenere chi aderisce a una cultura nonviolenta ed è in grado di dialogare con le altre culture, sia una valida strategia per far crescere la possibilità di un cambiamento pacifico all’interno di quello Stato”. E proseguono: “Nimrod Freed, direttore della compagnia di danza Tami Dance Company, è un ferreo pacifista e afferma: “per tutta la nostra vita speriamo, preghiamo e danziamo per la pace. Vorremmo davvero che questo eterno conflitto si risolvesse pacificamente”.
Salvo poi andare a leggere sul sito ufficiale di Nimrod Freed – Tamy Dance Company (http://www.nimrodfreed.com/group) che “The Nimrod Freed/Tami Dance Company performs in Israel and abroad, with the Company ‘s repertoire and international co-productions. It is supported by the Ministry of Culture and Sport”.
Sperare che il “conflitto” israelo palestinese si risolva pacificamente attraverso la speranza, la preghiera e la danza non solo è un’utopia, ma anche una grossa offesa al popolo palestinese che dovrebbe, in questo modo, lasciarsi alle spalle anni di occupazione, usurpazione e violenza e dimenticare tutto in una danza pacifica. Che non si chiami Dabke, magari…
Sappiamo bene cosa sia l’hasbara, forma di propaganda che mira a diffondere su media e social media informazioni positive su Israele e sulle sue politiche. E sono ben noti i tentativi israeliani di “ripulirsi la faccia”, spesso strumentalizzando e depoliticizzando culture e lotte alternative. Basti pensare al pinkwashing, strategia con la quale l’attenzione verso la quotidiana violazione dei diritti umani, viene sapientemente dirottata e distorta mostrando quanto bene vivano i cittadini israeliani omosessuali rispetto alle realtà circostanti e misurando in questo modo il suo grado di apertura e di democraticità.
Più recentemente si è iniziato anche a parlare di “vegan washing”, pratica attraverso cui lo stato strumentalizza il veganesimo per migliorare la sua immagine a livello internazionale con Tel Aviv definita “a world leading vegan city”, con tutte le contraddizioni del caso. (Per approfondire si veda il sito del Palestinian Animal League https://pal.ps/en/).
Siamo adesso di fronte a un tentativo di “love washing”?
Anche il BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), movimento nato in seno alla società civile palestinese per fare pressione su tutte le istituzioni israeliane affinché cessi la brutalità dell’occupazione, è una forma di lotta non-violenta e come aderenti a tale rete chiediamo che gli organizzatori, le associazioni e i singoli individui che a vario grado vi stanno collaborando prendano posizione contro l’ipocrisia della hasbara israeliana, ma soprattutto condannino le pratiche coloniali e di apartheid che di certo (ci auguriamo) non sono in linea con le intenzioni e i principi degli organizzatori del festival.
Foto: Ahmad Al Aruri