Storie di vita dalla Palestina occupata. Ismael Swayte: intervista alla madre Suhad
(a cura dell’Associazione Amicizia Sardegna Palestina)
Dura è un cittá a sud di Hebron, é circondata da oltre 90 piccoli villaggi e in vari punti confina con il Muro della separazione (1) che contorna la Cisgiordania.
Gli abitanti di questa zona lottano per le proprie terre dal 1948, sono molte le famiglie che ci si sono trasferite dopo la Nakba.
Incontriamo Suhad Swayty e le sue figlie in tarda mattinata, ci accolgono nella loro casa facendoci accomodare nel salotto e offrendoci un ottimo te alla menta. Suhad é la mamma di Ismael, un ragazzo di 17 anni in carcere da 9 mesi.
Nessuno ha avuto modo di incontrarlo durante tutto questo periodo. Alla madre è stato piú di una volta negato il permesso di visita. Gli unici momenti in cui ha potuto incontrare suo figlio sono stati i processi durante i quali lo ha visto, ma da lontano, senza poterlo abbracciare.
“Sono arrivati alle 4 di notte, hanno quasi sfondato la porta finché non abbiamo aperto. Sono entrati e andati direttamente in camera di Ismael, lo hanno svegliato e trascinato in salotto, si muovevano con familiarità, conoscevano perfettamente casa mia, ogni angolo, come se ci fossero già stati.
Erano soldati semplici e membri dello Shabak (2), la sicurezza con cui si muovevano nella nostra casa ci ha spaventato, conoscevano tutti i nostri nomi, ancora ci domandiamo come facessero ad avere dimestichezza con ogni angolo, abbiamo pensato a dei collaboratori (3) o a delle microspie nei cellulari, sicuramente programmavano da tempo questo arresto.
Hanno riunito tutta la famiglia in salotto, ci hanno chiesto le carte di identità. Urlavano. In quell’occasione era presente anche mio padre, il nonno di Ismael, ha 95 anni e ha problemi di udito, si sono rivolti con arroganza anche contro di lui che non riusciva a sentirli.
Dopo averci interrogato tutti, siamo dovuti uscire lasciando in salotto solo mio figlio cui hanno fatto mille foto, da ogni angolo.
Quindi lo hanno portato via, in pigiama, senza le scarpe, caricato su quello che loro chiamano bus che in realtà è una camionetta dell’esercito con sedie di ferro dove l’hanno legato e l’ho visto sparire senza poter fare nulla.”
L’accusa contro Ismael è di aver partecipato all’organizzazione di un attentato contro una macchina dell’esercito israeliano il 15 maggio del 2013, in occasione dell’anniversario Nakba palestinese: attentato rimasto tale perché la bomba non é esplosa e quindi non ha fatto alcuna vittima o danno.
“Durante questi mesi ho fatto domanda quasi ogni giorno per poterlo incontrare, nemmeno gli avvocati hanno potuto conferire con lui se non per qualche minuto prima del processo. Dopo i primi 90 giorni di interrogatorio sono riuscita a parlargli per telefono una sola volta.
Per legge solo i fratelli e sorelle con meno di 16 anni hanno il permesso di visitarlo, ma ho troppa paura di mandare mia figlia di 14 anni, da sola, in quelle prigioni.
In tutti i modi cerco di fargli arrivare dei vestiti tramite le famiglie di altri detenuti cui è concessa la visita, ma puntualmente questi vestiti vengono persi. Lui è li, da 9 mesi, senza biancheria, senza scarpe, con solo il suo pigiama primaverile.”
Ismael sarà sicuramente ritenuto colpevole, altrimenti sarebbe già stato liberato (4). Si può dire che la legge Israeliana che regola i territori occupati definisca i palestinesi “colpevoli fino a prova contraria”. Si tratta di una legge militare, è diversa da quella che regola Gerusalemme che a sua volta è applicata diversamente se a essere processato è un palestinese o un israeliano.
Lui si dichiara innocente e nonostante sia stato arrestato a 17 anni sarà giudicato come un adulto perché tra poche settimane ne compirà 18 (5).
L’accusa è tentato omicidio e, di solito, ha una condanna di 10/15 anni di detenzione. Possiamo supporre che Ismael ne riceverà di meno poiché l’attentato non ha avuto luogo e perché è ancora molto giovane.
La prossima udienza sarà a metà febbraio. La sentenza sarà nel 2015.
In un altro quartiere di Dura, poco lontano dalla casa di Ismael, incontriamo la famiglia di Abdullah e Musa Abu Sharar, rispettivamente 23 e 19 anni, anche loro arrestati con la stessa accusa.
Questa volta a accoglierci é tutta la famiglia: genitori, figli e nipotini.
Ci offrono un caffè e della frutta, sono tutti sempre cordiali, ci ringraziano di dare voce al loro dolore, è importante per loro poterlo condividere.
“Abdullah è stato arrestato il 10 giugno, sono venuti alle 3 del mattino” Il racconto è sempre lo stesso, hanno portato tutta la famiglia in una camera, hanno raccolto le carte di identità e portato via il ragazzo. “Lo hanno trascinato, a piedi, fino alla base militare Al Majnounneh, a 2 km di distanza da casa nostra e, picchiandolo, gli hanno rotto la mascella.
Venti giorni dopo, il primo di luglio, sono venuti a prendere anche Musa. Hanno sfondato la porta e, dopo averci radunato tutti, lo hanno spinto sulla camionetta ferendolo alla fronte. Per tre giorni non abbiamo avuto sue notizie, chiedevamo a tutti, a ogni associazione umanitaria che si occupasse dei prigionieri nelle carceri israeliane. Il quarto giorno scoprimmo che lo avevano portato nel centro di detenzione di Huwwara, vicino a Nablus, e che, a causa della ferita il giorno dell’arresto, potrebbe avere riportato dei danni gravi all’occhio destro. Lo hanno trattenuto lí per 8 giorni, torturandolo. Legato sotto il sole tutto il giorno per il caldo, varie volte, cadeva quasi in coma ed era poi risvegliato con secchiate d’acqua gelida. L’ultima volta lo hanno svegliato dei cani leccandogli le caviglie. Non sappiamo cosa volessero da lui. Ci sono ben 17 soldati che hanno testimoniato contro i miei figli quindi non c’era alcun motivo di investigazione.
Dopo una settimana é stato trasferito a Ramallah, nella prigione di Ofer.”
Ci racconta la storia il papà, gli occhi sono lucidi, possiamo solo immaginare quale sia il suo dolore. Siamo in salotto, lo stesso dove tutta la famiglia è stata riunita in occasione dei due arresti.
“Fino a poche settimane fa abbiamo potuto visitare solo Abdullah” ci spiega ora la mamma “ci è stato dato un permesso speciale per poter entrare in Israele con la croce rossa, dura un anno e permette una visita ogni due settimane. Questo visto è stato concesso a me e a mia figlia e non a mio marito perché in passato è stato arrestato pure lui. Anche un altro mio figlio potrebbe venire con noi, ma non mi fido, sono quasi sicura che lo Shabak gli sia dietro e non voglio rischiare mi portino via anche lui.
Da venti giorni hanno trasferito entrambi i ragazzi nello stesso carcere e finalmente li posso vedere tutti e due. Parliamo per 45 minuti con dei telefoni separati da vetrate.
Sono 22 i ragazzi accusati per questo attentato e 22 sono i casi aperti, noi genitori abbiamo chiesto più volte di riunirli in un unico, ma ci è stato negato. I processi dei miei figli saranno uno a fine gennaio e l’altro a fine febbraio, vorrei potessero stare assieme anche perché il viaggio dalla prigione al tribunale dura 3 giorni e farlo con qualcuno sarebbe per loro meno violento.”
Restiamo in attesa. Cercando di rimanere umani.
Sibilla Aleramo
1 La costruzione del Muro di separazione é stata approvata nel 2000 dal Primo ministro Israeliano Barak. Questa costruzione avrebbe dovuto limitare la Cisgiordania e Israele seguendo i confini del 1967 (la cosiddetta Green line), i lavori iniziarono a giugno 2002 a ovest di Jenin. Di fatto il muro è stato costruito all’interno della West Bank (circa lo 85%) includendo così al territorio dello stato di Israele terre palestinesi, dividendo famiglie e creando ulteriori difficoltá a questo popolo.
2 Lo Shabak é l’agenzia di intelligence per gli affari interni dello stato di Israele
3 Palestinesi che collaborano con lo shabak, anche definiti, in toni non politicamente corretti “mercenari”.
4 Secondo una legge del 1983 la testimonianza di chiunque é sufficiente per ritenere l’imputato colpevole. Se non si viene rilasciati entro 45 giorni dall’arresto per investigazioni significa che qualcuno, probabilmente un soldato, ha testimoniato contro l’imputato.
5 Israele è l’unico stato al mondo nel quale i ragazzi vengono giudicati per l’età durante il periodo del processo e non per quella che avevano nel momento in cui è stato compiuto il reato per il quale sono imputati.