Storie di vita dalla Palestina occupata 2 – Firing Zone 918

Storie di vita dalla Palestina occupata

FIRING ZONE 918

(a cura dell’Associazione Amicizia Sardegna Palestina)

INTRODUZIONE.

La zona di Maasafer Yatta si estende per 3300 ettari sulle colline a sud di Hebron. Negli anni ’80 le autorità israeliane decisero di adibire l’area a zona militare. Poiché geograficamente molto simile al sud del Libano è considerata perfetta per le esercitazioni dei soldati e per la sperimentazione di armi sofisticate. Le 12 comunità beduine che vivono nella zona sono per lo più profughi del 1948, (sarebbero originariamente provenienti dalla zona est di Beer Sheva) costituiscono in totale una popolazione di circa 1200 persone. Attualmente il caso di Masefer Yatta è al vaglio della Corte di Giustizia, ma se questa dovesse approvare il progetto della “FIRING ZONE 918” significherebbe la completa rimozione di 8 delle 12 comunità presenti. Le tende e le grotte in cui vivono sarebbero distrutte e gli abitanti sfrattati. Le 4 comunità che rimarrebbero avrebbero accesso limitato alle loro terre, poiché trattandosi di una zona militare, posta in zona C (area totalmente sotto l’autorità di Israele), potrebbero  essere privati delle strutture e infrastrutture necessarie e sottoposti ad una pressione tale da costringerli ad andarsene. Le comunità palestinesi non sono considerate già nella segnaletica stradale: i cartelli presenti indicano le colonie o le città, ma nessuno dei 12 villaggi beduini.

PROCESSO LEGALE.

Nel 1999 le forze armate israeliane, con decisione unilaterale, evacuarono parte della popolazione, le loro terre vennero confiscate e le loro abitazioni distrutte. I militari usarono i mezzi dell’esercito per portare le persone fin dentro la città di Yatta. Pochi mesi dopo una petizione portata avanti dall’associazione per i diritti civili in Israele (ACRI) portò il caso di fronte alla Corte di Giustizia che solo nel 2000 permise a parte della popolazione sfrattata di riprendere temporaneamente possesso delle proprie terre, in attesa di una sentenza definitiva. Ovviamente al loro permesso di poter stare fu posta la condizione di non poter cambiare assolutamente lo status quo: ciò significa che nulla di nuovo poteva e può essere costruito, ne possono essere ampliate le unità abitative esistenti. Inoltre le autorità israeliane interpretarono in maniera restrittiva la decisione della Corte, permettendo di fatto di tornare solo ai firmatari della petizione e non ai loro parenti.

Nel 2012 il procuratore di Stato Israeliano ha presentato una replica, basandosi sulle posizioni del Ministero della Difesa, secondo la quale una “residenza permanente sarà proibita”. Alcuni di coloro che abitano questa zona vivono a Yatta e si trasferiscono a Maasafer Yatta solo nel periodo dell’anno in cui la cura del pascolo e delle coltivazioni lo richiedono. Secondo il Ministero della Difesa ai beduini dovrebbe essere concesso di coltivare i terreni e utilizzare i pascoli solo il venerdì, il sabato e durante le feste ebraiche. Gli unici villaggi a non dover subire queste restrizioni sarebbero Tuba e Mufqara, situati a nord-ovest dell’area.

La decisione di lasciare le popolazioni nelle loro terre, per disposizione della Corte di Giustizia stessa, valeva solo fino a novembre del 2012, così nel gennaio 2013 ACRI ha presentato un’altra petizione, accolta nel settembre dello stesso anno. A ottobre è stato nominato un mediatore che dovrebbe conciliare gli interessi delle parti. Non c’è ancora stata una decisione finale sulle sorti di Masafer Yatta. Nel mentre le esercitazioni dei militari israeliani continuano come  se la zona fosse già stata dichiarata “firing zone”.

I VILLAGGI.

Le comunità che abitano quest’area vivono principalmente dal pascolo degli ovini e dalla coltivazione del grano. Non sono collegati alla rete idrica, né a quella elettrica, perciò hanno un sistema a pannelli solari. Vivono in grandi tende dotate di basamenti in muratura.

La comunità di Um-al-Kher vive appena fuori dalla “firing zone”, i beduini che la abitano sono rifugiati del ‘48 che costretti ad abbandonare le loro case decisero di venire a vivere in questa zona, comprando le terre fino a quel momento disabitate. Sono stretti fra la colonia di Har Hevron, e la sua zona industriale. L’insediamento di Har Hevron, presente dal 1982 a seguito di un massiccio esproprio di terreni, si sta progressivamente ampliando (sono di 4 o 5 mesi fa le ultime case costruite) e pianifica di espandersi ulteriormente sul crinale della collina con 62 case in più. Una parte dei coloni che vivono in quest’area lavorano in Israele e quindi viaggiano quotidianamente, mentre un’altra parte sono impiegati negli allevamenti e nei mattatoi di pollame e bovini della zona industriale. I coloni (particolarmente agguerriti in quest’area) sottopongono i beduini a continue pressioni. Tentano in tutti i modi di cacciarli: gli impediscono di pascolare liberamente nel territorio dove stanno pianificando di espandersi, minacciandoli e, non di rado, aggredendoli fisicamente; hanno indetto una causa per ottenere un risarcimento di 220000 shekel (46000 € circa) poiché disturbati dal fumo dei “taboon”, i caratteristici forni a legna che i beduini usano per cuocere il pane, ma anche la carne, che rimangono accesi 24 ore su 24. Per ogni inezia chiamano i soldati israeliani che puntualmente accorrono ad arrestare indiscriminatamente uomini, donne e bambini. Tutti gli uomini che sono stati già arrestati, sono minacciati di dover pagare un’ammenda estremamente esosa qualora venissero arrestati nuovamente. Non potendosi lamentare gli uomini la difesa del territorio rimane a donne e bambini, ma negli ultimi tempi le autorità israeliane non si sono fatte scrupoli e 2 donne e 2 minori sono stati arrestati.

La comunità di Al Majaz. si trova all’interno della “firing zone”. La popolazione abita all’interno di gradi tende con basamento in pietra, poiché non è possibile costruire niente di stabile fino a che non viene stabilito se l’area diverrà effettivamente zona militare o meno. Si sta costruendo una scuola, che una volta finita ospiterà 25 bambini, per adesso si può vedere solo la struttura di ferro che poi verrà ricoperta dalla tenda. Il costo totale per poterla ultimare è di circa 25000 shekel (circa 5200€). Gli abitanti si augurano che la struttura possa essere completata entro il due febbraio, giorno di riapertura delle scuole dopo le vacanze di metà anno scolastico. I bambini di questa comunità normalmente devono andare ad Al Fakheit, una comunità distante 7 km da Al Majaz, la cui scuola accoglie i bambini delle comunità circostanti. L’UNICEF aveva messo a disposizione una jeep per accompagnare tutti i bambini ad Al Fakheit, ma potendo prendere solo 6 studenti per volta si è deciso che avrebbe servito solo la comunità di Al Majaz, la più numerosa (circa 40 bambini). Durante gli scorsi mesi invernali, nei quali non è stato concesso agli operatori dell’area di entrare nell’area, una casa momentaneamente disabitata è stata adibita a scuola.

Al Fakheit ospita  la clinica, aperta una volta alla settimana e gestita dal Palestinian Relief Organization: un’unica stanza situata accanto alla scuola, che insieme ad un’altra tenda posta nel villaggio di Jimba, rappresenta uno degli unici due presidi ospedalieri della zona. La scuola è in questo momento in ampliamento grazie ai fondi dell’associazione “Action Against Hunger”. Per un certo periodo la jeep che portava i bambini in questa scuola è stata confiscata, perché le autorità israeliane sostenevano che si trattasse di un mezzo palestinese che transitava in una zona militare senza permesso (sulla jeep, donata dall’UNICEF al Ministero dell’Istruzione, era stata apposta la targa palestinese). A seguito di una trattativa, condotta dall’ONU e dal Ministero dell’Istruzione, le autorità israeliane si sono mostrate disponibili alla restituzione della jeep ponendo, però, la condizione che l’autorità palestinese facesse domanda per ottenere uno specifico permesso. Sia l’ONU che tutte le altre ONG che lavorano sul territorio si sono opposte a questa soluzione, sostenendo che se l’autorità palestinese dovesse chiedere il permesso di transitare nell’area, creerebbe un precedente per il quale anche tutte le altre organizzazioni (ONU compresa) sarebbero costrette a farlo.  Negli ultimi tre mesi è stato impedito all’ONU, come ad altre organizzazioni umanitarie di accedere all’area. La strada che collegava le varie comunità alla scuola è stata chiusa. In tutta l’area il terreno è argilloso e la strada è franata a seguito delle intemperie, rendendo impraticabile il passaggio. Le autorità israeliane hanno approfittato di questo fatto per impedire l’accesso a chiunque, compresi i mezzi dell’ONU che sono potuti tornare solo il 23 gennaio scorso. Concessione frutto di lunghissime trattative.

Jimba è un piccolo villaggio al sud di Yatta che ospita una tenda, finanziata dalla Cooperazione Italiana, adibita a clinica. I bambini di questo villaggio usano la moschea come scuola.

Appena fuori dall’area della Firing Zone, c’è la colonia illegale di Mitzpe Yair. Il nome gli è stato dato in onore di Yair Har-Sinai, un colono proveniente dall’insediamento di Susya, particolarmente distintosi per la sua violenza. Gli abitanti di questa colonia, costruita nel 1998, sono fortemente ideologizzati e particolarmente aggressivi, non solo contro i palestinesi, ma anche contro le ONG, gli operatori delle Nazioni Unite e tutte le associazioni umanitarie internazionali che frequentano la zona. Nonostante sia considerato illegale, l’insediamento è collegato alla rete elettrica e idrica, mentre i villaggi palestinesi dell’area non hanno questi collegamenti. La comunità palestinese più vicina alla colonia, quella di Twani, non ha neanche un collegamento alle strade.

Teresa Batista