Storie di vita dalla Palestina occupata_7
Samer Issawi: un uomo libero
(a cura dell’Associazione Amicizia Sardegna Palestina)
Arrivare a casa di Samer è facile: basta chiedere all’autista dell’autobus che porta ad Issawia, zona est di Gerusalemme. È qui che il 24 dicembre scorso è tornato, celebrato come un “eroe”, anche se lui parla sempre di se stesso come di un “uomo libero”, anche quando si riferisce ai giorni più bui della prigionia. L’avevamo visto il 26 dicembre dentro l’enorme tenda montata di fronte alla sua casa, frastornato dal fiume di persone che era venuto a salutarlo, dai canti tradizionali della resistenza palestinese.
Samer è sereno mentre ci racconta come sia riuscito a sfuggire alla condanna a venti anni grazie allo scambio con Gilad Shalit e a come, però, lui, e tutti coloro che avevano fruito di questo accordo, sono stati arrestati pochi mesi dopo, nel 2012, per motivi futili. Preferisce non raccontare la fatica di 278 giorni di sciopero della fame, meglio parlare di ciò che lui definisce: “le azioni terroristiche di Israele inflitte contro un popolo che non ha armi sufficienti per poter rispondere, se non l’essere forti del proprio diritto di resistere e di voler essere liberi.”
“Sono stato arrestato nel 2012, mentre andavo in Cisgiordania, in un villaggio parte di Gerusalemme, ma separato da essa dal muro. Per me non c’è nessuna differenza tra Gerusalemme e la Cisgiordania: tutto è Palestina. L’occupazione israeliana non dovrebbe dividerci. Quando ho saputo che mi avevano dato altri 20 anni, ho deciso che avrei fatto lo sciopero della fame e l’avrei continuato fino a che non fossi tornato a Gerusalemme. Vivo o morto. Volevo dare un messaggio forte agli israeliani: Gerusalemme è una città palestinese e araba, abbiamo tutto il diritto di stare qui. È l’occupazione israeliana a doversene andare. È un nostro dovere difendere la nostra terra e la nostra dignità, e i luoghi religiosi quì. La moschea Al Aqsa è il luogo più religioso e sacro per i musulmani: l’occupazione israeliana sta cercando di svuotare la città da tutti i musulmani, in modo che sia un luogo solo ebraico. Il loro piano è di demolire le chiese e le moschee e di costruire al loro posto più sinagoghe dove gli ebrei possano andare a pregare. Non vogliono né i cristiani, né i musulmani qui. Tramite il mio sciopero della fame volevo lanciare un altro messaggio: dobbiamo difendere il nostro diritto a stare qui e visitare i nostri tutti i nostri luoghi santi dover poter pregare. Qualsiasi cosa succeda nella moschea di Al Aqsa tocca miliardi di musulmani in tutto il mondo. E le cose che succedono nelle chiese toccano tutti i cristiani: per questo tutto il mondo deve supportare la richiesta del popolo palestinese di essere libero e di avere il proprio stato indipendente. Tutti dovremmo combattere coloro che traggono vantaggio dalle condizioni ineguali degli esseri umani e dovremmo far finire l’estremismo religioso che è in realtà lontanissimo dalla religione. Dovremmo ascoltare il passato, ripensare a tutte le guerre e a tutti i morti e a tutte le rivoluzioni che sono state fatte contro le occupazioni e che hanno portato alla libertà.
È stato uno sciopero della fame molto lungo: 278 giorni. Mi hanno fatto molte pressioni perché io lo interrompessi. Mi sono rifiutato di dare loro motivo di controllare la mia vita e il mio futuro, ero un uomo libero era la mia scelta continuare lo sciopero fino a che non avessi ottenuto quello per cui lottavo. Quando mi hanno picchiato mentre ero in tribunale la stampa era presente, ma si può vedere solo parte delle violenze che sono state fatte contro di me e che vengono fatte contro i prigionieri palestinesi: ci sono violenze che non possono essere catturate da una telecamera o da una macchina fotografica. Durante il mio sciopero della fame le mie condizioni fisiche erano molto peggiorate. Il dottore disse alle autorità israeliane che il mio cuore si sarebbe potuto fermare da un momento all’altro. Mi avevano proposto di andarmene a Gaza o in qualsiasi altro paese in Europa, ma ho rifiutato. Mentre ero in ospedale mi hanno ammanettato mani e piedi al letto. I soldati che mi piantonavano, mangiavano e bevevano davanti a me per tutto il tempo. Continuavano a ripetermi che non avrei ottenuto mai quello che chiedevo. Hai due possibilità -mi dicevano- o il carcere per 20 anni o la morte. E se muori a nessuno importerà di te. Non li ho ascoltati. Continuavo a credere che dovevo tornare a Gerusalemme dalla mia famiglia e a pensare a tutti i leader delle rivoluzioni in tutto il mondo e a come loro hanno combattuto per i loro diritti e la loro libertà e per la libertà dei loro popoli. L’ultimo libro che letto prima dell’arrestato era sulla storia di William Wallace, che si rifiutò di riconoscere l’occupazione inglese sulla Scozia. Lo torturarono fino alla morte perché cambiasse idea, ma libertà fu la sua ultima parola. Ci sono molti altri leader di rivoluzioni come Nelson Mandela, Che Guevara, Omar al-Mukhtar, Yaser Arafat, perseguitati o uccisi perché credevano nel loro diritto ad essere liberi contro le occupazioni. Tutti questi leader mi hanno dato la forza per andare avanti. Perché se accettiamo di vivere sotto occupazione vuol dire che non abbiamo nessuna dignità e che siamo come schiavi. Ho rifiutato che l’occupazione mi trattasse come uno schiavo, credo di essere un uomo libero e di combattere per i miei diritti e per la libertà della nostra terra. Nonostante mi abbiano picchiato e torturato, sia fisicamente, che psicologicamente, non mi sono mai arreso alle loro pressioni, ciò che mi ha dato la forza è stata la consapevolezza che molte persone in tutto il mondo sapevano della mia lotta e mi stavano supportando e anche questo è stato un messaggio per l’occupazione: le persone in quanto esseri umani si supportano l’un l’altro affinché chiunque nel mondo sia libero. Mi hanno isolato dagli altri detenuti, sono rimasto solo anche quand’ero in clinica. Ero solo senza televisione o radio, non avevo giornali, non avevo nulla: mi hanno tagliato fuori dal mondo, non avevo idea di cosa succedesse all’esterno. Non mi hanno permesso di comprare dai miei stessi soldi spazzolino, dentifricio, ne qualsiasi genere di sapone per potermi lavare. All’inizio del mio sciopero della fame succedeva quasi ogni giorno che mi facessero salire su una macchina, senza condizionatore, né riscaldamento, quindi era molto fredda d’inverno e molto calda d’estate. Mi lasciavano là dalle sette del mattino a mezzanotte, dicendomi che mi dovevano portare in tribunale, ma non mi portavano da nessuna parte, non c’era nessuna udienza. Era solo per indebolirmi ancora di più fisicamente, ma il loro modo di trattarmi ha solo fatto in modo che la mia protesta diventasse ancora più estrema, così smettevo anche di bere per 4 o 5 giorni di seguito: ero io ad indebolire loro.
Con la mia storia molti nel mondo sono venuti a conoscenza delle violazioni dei diritti umani nei confronti non solo dei prigionieri politici, ma di tutto il popolo palestinese e di tutto ciò che, all’interno dei territori occupati, è palestinese.
Ci sono circa 5000 prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane: sono tutti costantemente in lotta per la difesa dei loro diritti di detenuti e lo sciopero della fame è storicamente uno degli strumenti di protesta usati. Dagli anni ’70 ad oggi i motivi della protesta sono stati vari: dal diritto allo studio, al prolungamento del tempo fuori dalle celle, al poter dormire su materassi o poter mangiare vero cibo. L’ultimo grande sciopero nel 2012 chiedeva ancora il diritto di poter studiare e la fine dell’isolamento di 16 prigionieri che durava da 12 anni. Le cure mediche sono carenti e nel 2013 sono morti 4 detenuti: due di loro avevano il cancro e non sono stati curati per tempo, nonostante le autorità israeliane fossero a conoscenza delle loro gravi condizioni; il terzo è stato picchiato e torturato fino alla morte nella stanza degli interrogatori. Il quarto è stato arrestato quando era già in condizioni di salute molto gravi. Lo hanno rilasciato solo quando erano sicuri che sarebbe sopravvissuto ancora poco e che non avrebbe potuto curarsi. È morto a una settimana dal suo rilascio. Attualmente ci sono 5 detenuti gravemente malati: due di loro sono malati terminali di cancro, stanno solo aspettando che muoiano, i dottori hanno detto loro che hanno dai 6 ai 12 mesi di vita; altri due, rimasti feriti durante il loro arresto, non sono stati curati e sono costantemente sotto antidolorifici e altri farmaci per non sentire il dolore, quindi non sono mai coscienti. Un altro non è stato curato per tempo e ha subito l’amputazione della gamba. Ci sono altri 40 casi di malati di cancro non curati. Circa 1000 detenuti palestinesi soffrono di varie patologie e circa 200 hanno malattie veramente gravi, nessuno di loro viene curato adeguatamente. I bambini arrestati vengono maltrattati e non gli viene concesso di studiare. Quando escono dal carcere per via di tutte le torture subite, hanno problemi psicologici gravi, sono aggressivi o tendono ad isolarsi.
Se penso al futuro vorrei creare dei progetti di supporto per questi bambini: dare loro la forza e gli strumenti per riabilitarsi, per poter studiare e avere possibilità di crescere normalmente. Vorrei cooperare con i giovani di tutto il mondo, affinché conoscano la situazione della Palestina. Vorrei che quanti vengono a Gerusalemme, per visitare la città, possano comprare i prodotti dai palestinesi e boicottare l’economia israeliana, anche questo è un modo di combattere il terrorismo di Israele e supportare la causa palestinese. Mi piacerebbe far sapere ai 100 leader mondiali che sono stati in Sud Africa per i funerali di Nelson Mandela, che anch’egli all’inizio venne trattato da terrorista e dopo 30 anni gli hanno dato il premio Nobel per la pace, considerandolo un combattente per la libertà. Vorremmo dire a quei 100 leader che ci sono 5000 detenuti palestinesi nelle carceri israeliane che stanno combattendo per la loro libertà e per la liberazione della Palestina, chiediamo a loro di fare pressione su Israele affinché rilasci tutte queste persone. Chiunque in tutto il mondo creda nella libertà dovrebbe fare pressioni sui propri governi e lavorare per la libertà della Palestina. Dovremmo ricordarci di essere umani e comportarci di conseguenza: è la nostra umanità ciò che ci rende creature speciali a questo mondo.”
Teresa Batista